Eliseo Mattiacci (Cagli, 1940) ha vinto la sua personale battaglia. Creando come quarta opera dell’iniziativa Invito a…, un ossimoro radicale. Che va oltre ogni evidenza tautologica. Danza di astri e di stelle è infatti un’installazione pesante e leggera nello stesso tempo, rivolta verso il cielo. Con l’abilità del fabbro che da sempre lo contraddistingue, l’artista ha forgiato tre lastre rettangolari in forma di stele, che svettano erette come un ipotetico triangolo isoscele. Sono alte dieci metri e pesano dieci tonnellate l’una, ma a tanto peso corrisponde in realtà una visione aerea complessiva dell’opera, che per assurdo appare leggera. Un gioco di forze che vince la gravità.
Mattiacci ha innalzato tre lastre pesantissime che si reggono perfettamente in piedi, rimanendo in equilibrio, sollevate da terra e appoggiate su pinze. Appaiono monoliti ermetici, destinati a comunicare con il cosmo, come grandi pagine di un antico libro di astronomia. Non a caso, dopo aver visionato numerosi spazi della città, ha scelto la periferia cittadina e lo spazio dell’ex Fonderia Lombardini, ora sede della compagnia di danza Aterballetto. Affascinato dall’idea della danza, ha collocato un’opera pesante e vigorosa proprio in un luogo dove si parla di leggerezza. E l’ha fatta –a modo suo– danzare. Il verticalismo e le misure seguono la linea del “fare grande” dell’ultima stagione di Mattiacci, quella più attenta alle leggi della fisica e del cosmo. Fin dagli esordi sulla scena romana degli anni Sessanta, l’attenzione dell’artista è sempre stata per i materiali, la sua notorietà nasce difatti col famoso Tubo, realizzato per la sua prima personale del 1967, un tubo di ferro nichelato, verniciato di giallo, esposto nello spazio della galleria La Tartaruga. Negli anni Settanta si dedica all’azione performativa comportamentale, ma è soltanto negli anni Ottanta che inizia a rivolgersi allo spazio cosmico, con una particolare tensione verso il cielo e i misteri delle galassie.
In quegli anni nasce anche la sua passione per l’equilibrio e la scommessa sulla fisicità della materia, che si ritrova anche in quest’ultima opera realizzata in corten. Una particolare lega d’acciaio -una scelta non casuale- molto utilizzata in scultura e architettura, che si ossida, modificandosi nel tempo. Sulle lastre è intervenuto con disegni, che appaiono come misteriosi buchi e segni incisi sulla superficie, “cosmogrammi” condensatori di energie, da cui filtra la luce nei diversi momenti del giorno. Pianeti, ellissi inclinate che s’incrociano, l’occhio di Horus, il dio del sole egizio, buchi che evocano le sette stelle del Carro Maggiore, un’onda cosmica e spirali che tendono verso l’infinito. Alfabeti misteriosi e incomprensibili per un potenziale collegamento tra terra e cielo, un ideale osservatorio astronomico della città. Secondo l’artista, il lavoro è un mezzo per poter raggiungere lo spazio infinito a cui anela: “Mi sento attratto dal cielo con le sue stelle e pianeti – afferma – e al di là delle nostra galassie, è un’ immaginazione che va oltre, come a voler sfidare la fantasia stessa, come in un sogno. Mi piacerebbe lanciare una mia scultura in orbita, nello spazio. Sarebbe davvero un bel sogno sapere che lassù gira una mia forma spaziale.”
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