Sale piene, organizzazione discreta, temi e opere stimolanti, giovani e non insieme per una riflessione sull’identità di genere. Ieri e oggi. Il progetto presentato dal Cassero Gay Lesbian Center, voce dinamica della cultura bolognese, merita un applauso.
In barba ai prezzi non troppo popolari, va detto, il festival ha richiamato una fiumana di spettatori. Non tutti artisti, non tutti critici, forse nemmeno tutti appassionati e soprattutto non necessariamente omosessuali. Ma tutti interessati agli argomenti in gioco.
Arte, certo, ma anche vita. Un calderone di storie, personaggi, epoche, mezzi artistici differenti, che assemblati con intelligenza hanno toccato tutti i livelli identitari, estremi compresi. Realtà stratificate, volutamente ambigue, tese ad insinuare germi di vitalità nella logica comune. Ad ognuno l’eventuale quanto auspicabile libertà di interpretare e ragionare, perché no, sul proprio gender.
Figura centrale dell’intero evento è stata quella di Jean Cocteau (1889-1965), artista a 360 gradi, poliedrico al massimo, mitizzato come catalizzatore culturale, e naturalmente criticato. Nel contesto del Festival s’inserisce come esempio precoce, quasi un padre fondatore, del non irrigidimento del pensiero entro schemi socialmente corretti. Notevole la retrospettiva che gli rende omaggio: c
Nella sezione Arti visive rientra l’evento speciale del festival: The Cremaster Cycle, la celebre serie di cinque film dell’americano Matthew Barney che costituiscono un’unica, sofisticata opera con fin troppo evidenti sfondi sessuali. Superaffluenza a pari merito per proposte apparentemente molto lontane: dall’estratto del documentario Erotika-Fetish Ball di D’Onofrio, che sviscera i come e i perché dell’attività di Mistress Lucrezia, e la ricerca di esperienze estreme da parte dei suoi “schiavi”, al delicato e ironico Cachorro di Albadalejo. Anche se il tema che li accomuna è quello delle fragilità umane. Risvolti psicologici presenti anche nei video di Jesper Just, dove emerge una virilità spogliata dei suoi clichè.
La questione di una fisicità portatrice di senso è messa in scena da Charlotte Vanden Eynde e Kurt Vandendriessche con lo spettacolo Map Me. Stimolante l’idea di usare i corpi nudi dei performer come superfici di proiezione, di scrittura. Entità passive dunque, ma che si attivano quando compiono gesti e movimenti. Movenze cariche di contenuti sulla corporeità, territorio infinitamente esteso e spesso sconosciuto che implica una miriade di concetti e possibilità. Ne derivano immagini affascinanti, pittoriche e visionarie, estremamente d’impatto.
Ma Gender Bender 2005 è stato anche molto altro. Cinema, tv, arte, teatro, nel segno di una con-fusione e di una rivisitazione generale degli stereotipi.
Elemento per molti inquietante, una normalità imprevista e imprevedibile viene alla luce e cerca di affrancarsi dalla sua condizione di marginalità imposta. Per non suscitare più diffidenza ma consapevolezza, per riproporre la propria presenza storicamente negativizzata come potenzialità costruttiva e profondamente culturale.
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