Il gender bending è una conscia sfida all’idea di genere, visto non più come polarità ma come continuum. Il festival bolognese rappresenta da quattro anni un’occasione per sviscerarne le possibilità, le sfumature e talvolta le sofferenze. Ciò significa sia giocare e ironizzare sugli equivoci dell’identità sessuale, sia riflettere sulle ragioni alla base della difficoltà, per alcuni, di definirsi “uomo” o “donna”, e accettare le connotazioni associate a questi termini, senza poter liberamente decidere che il proprio sesso biologico non coincide necessariamente con un’etichetta culturale.
Questa edizione di Gender Bender è stata però segnata dalle polemiche tra la curia e le istituzioni locali, che hanno portato a parlare più dell’idea alla base della manifestazione che del valore degli eventi in sé.
In un articolo apparso domenica 29 ottobre su Bologna 7, il supplemento settimanale del quotidiano cattolico Avvenire, ci si chiedeva infatti se “È lecito spendere soldi pubblici per finanziare spettacoli di pornostar mascherate da artisti”, accusando gli enti locali coinvolti nel finanziamento del festival di contrabbandare “per cultura l’interesse di una lobby”, la quale “vuole spacciare come manifestazione artistica l’esibizione di spogliarelli e simili che costringono al degrado l’impareggiabile vocazione della dignità umana”. Nell’articolo si negava quindi la legittimità di “un’invasione barbarica che oltraggia la fede e la ragione dei bolognesi”.
La reazione del sindaco Cofferati, è stata pronta (“Solo la censura, il pregiudizio e l’intolleranza rischiano di riportarci al tempo dei barbari”) e ha condotto ad uno scontro aperto tra la curia e i sostenitori del festival.
Di fatto la polemica può paradossalmente aver giovato in un’annata in cui Gender Bender non poteva contare, come lo scorso anno, su nomi di sicuro richiamo quali Jean Cocteau, Francesco Vezzoli, Robert Mapplethorpe e Matthew Barney (presente solo con un cortometraggio), come dimostrerebbero le circa 12 mila presenze registrate.
L’edizione 2006 ha offerto la possibilità di godere di performance (che come strumento che mette in gioco direttamente la fisicità rappresenta uno dei media più efficaci per comunicare le ambiguità identitarie), spettacoli teatrali, concerti e molti video, spesso inediti nel nostro Paese.
La sezione arti visive ha sofferto della mancata presenza di alcuni degli artisti invitati (Tracey Emin e Grayson Perry hanno dato forfait), e Gender Bender ha finito per gravitare intorno agli eventi che avevano per protagonista l’artista polacca Katarzyna Kozyra, la quale ha proseguito la sua ricerca In Art Dreams Come True coinvolgendo Bologna e il tema dell’ambiguità sessuale attraverso un lavoro (Il Castrato) dedicato a Farinelli, che a Bologna visse per oltre vent’anni.
Nell’affollata serata di apertura è stato proiettato il film Destricted, presentato in anteprima al festival di Cannes, una raccolta di cortometraggi di Matthew Barney, Marina Abramovic, Sam Taylor-Wood e Larry Clark sul tema del confine tra arte e pornografia, tema affrontato a dire il vero in modo un po’ didascalico. Gli altri artisti presenti con lavori video hanno in genere scelto la dimensione narrativa, convenzionalmente associata più al cinema che non alla videoarte. Il turco Kutlug Ataman, ad esempio, ha presentato un film, 2 Girls, sulla difficoltà di crescere per due ragazze turche, riprese nel momento della scoperta dell’impossibilità di essere donne e di fare scelte elementari quali dipingersi i capelli di rosso.
Con Top Spot, Tracey Emin ha scelto una modalità al confine tra narrazione e documentario, dal tono in parte autobiografico (la vicenda è ambientata a Margate, dove l’artista inglese è cresciuta), filmando ragazze adolescenti alle prese con la propria sessualità.
Uno dei lavori più interessanti della sezione è stato il documentario di Neil Crombie
Nel giorno di chiusura del festival questa toccante e niente affatto provocatoria affermazione della libertà di negare le connotazioni violente del proprio genere è parsa una risposta emblematica a chi aveva usato, senza aver visto alcuno dei lavori presentati, la parola “barbarie”.
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