Oltre 1.400 metri quadri a disposizione per l’area ripristinata dello storico Ex Ospedale Sant’Agostino, di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. Spazio ampissimo recentemente restaurato, che sarà dedicato negli anni a venire a eventi culturali d’importanza nazionale e internazionale.
Come questo che si è appena concluso con grande successo, il numero
Uno, appunto, di una lunga serie. Del resto non poteva che essere una raffinata occasione, per l’apertura della nuova sede espositiva, mettere insieme una selezione significativa delle acquisizioni di cinque grandi maestri dell’obiettivo, che hanno fatto a modo loro la storia della fotografia italiana, incrociandosi a volte o sovrapponendosi. Modelli per le generazioni successive, che hanno guardato il mondo non soltanto per raccontarlo, ma per darne un’ulteriore rilettura, capace di mostrare i mutamenti di un’Italia sempre tesa al cambiamento.
Il percorso tra le stanze dell’ex ospedale parte dalla scuola emiliana di
Franco Fontana, coi suoi celebri paesaggi urbani astratti e geometrici, decisamente pittorici, che rimandano a
Mondrian per le geometrie e alla
colour field painting per l’effetto cromatico. La macchina fotografica è come una penna per il fotografo, che incasella lo spazio frammentandolo tra pezzi di muri e pareti. La sua innovazione estetica di concezione del paesaggio, che diviene una sorta di rivoluzione, rifiuta l’uso del bianco e nero e rende il colore elemento dominante del processo di creazione dell’immagine.
Luigi Ghirri non vuole invece documentare il mondo, bensì esplorarne la sua quotidianità, la normalità dei suoi luoghi, gli stessi in cui ha vissuto. Nella serie
Versailles raggiunge esiti sorprendenti, nell’immergere i giardini nella luce bianca del cielo di Parigi, chiarissima, che crea un’atmosfera quasi metafisica e sicuramente intimistica, spirituale.
Diversa è la relazione tra reale e irreale della mitologia archeologica in bianco e nero di
Mimmo Jodice che, in
Vedute di Napoli, gioca sul rapporto tra memoria e apparenza del mondo, tra passato e presente; mentre nella serie
Mediterraneo non è la malinconia che prevale, ma un’esortazione a non dimenticare le origini della cultura mediterranea e i suoi archetipi.
Quello di
Gabriele Basilico è uno sguardo che si protrae all’infinito, oltre i confini della dimensione strettamente fotografica; è un atteggiamento contemplativo e lento verso l’identità del paesaggio contemporaneo, quello della metropoli, dei grattacieli e delle periferie anonime delle città, dove non sono più gli esseri umani ad abitare lo spazio, ma solo i volumi degli spazi e delle impalcature, con tutta la loro complessità.
Ultimo della lista – ma non certo per importanza –
Franco Vaccari, che afferma di non ritenersi propriamente un fotografo, poiché in realtà è la radicalità dell’uso del mezzo fotografico ciò che gli interessa. Nelle
Esposizioni in tempo reale, difatti, viene esposto il meccanismo stesso dell’esposizione, e in
Bar Code 2 in particolare – installazione permanente realizzata per la Fondazione sul modello di quella presentata alla Biennale di Venezia del ’93 – ripropone un luogo intimo e raccolto, che trova il suo senso soltanto con la partecipazione del pubblico. In uno scambio umano che, forse, nel nostro mondo freddo e virtuale non ha più senso.