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Quindici anni fa, un mio compagno di classe delle scuole medie scrisse a Mediaset lamentando l’impossibilità di tenersi al corrente degli episodi di Vivere. Proposto prima del Tg5, diventava impossibile seguire le appassionanti vicende della soap ambientata a Como, per chi usciva da scuola alle 13. Al tempo, la famiglia era spaccata tra chi doveva tenersi continuamente informato grazie ai telegiornali, cioè il papà, chi continuava il suo sodalizio con Beautiful dai tempi dell’università, la mamma, e chi guadagnava lo scettro del telecomando solo per sintonizzarsi su Italia1 alla voce cartoni animati. Allora funzionava così, con il palinsesto a dettare i ritmi della giornata. I produttori vendevano alle reti che sceglievano gli orari giusti per piazzare questi programmi tra diversi e ragionati interventi pubblicitari, motore immobile di ogni offerta culturale, specie se televisiva. Così, era normale che i cartoni riabbracciassero, dopo il risveglio al mattino, gli studenti appena tornati da scuola, giusto il tempo di prendere fiato prima che gli oneri di studio tornassero a galla con i compiti.
Matt Groening, Disenchantment
Così abbiamo conosciuto i Simpson. Così avremmo conosciuto Futurama. Così non è stato per Disincanto. Se con l’eterno presente dei gialli d’America e col futuro remoto delle galassie avevamo un appuntamento da rispettare, la nuova serie firmata Matt Groening sbarca su Netflix a orario mobile pur rispettando i tempi tecnici della mezzoretta di contenuti. L’autore si mostra estremamente consapevole dotando la storia di un plot cronografico che, in accordo alla recente produzione seriale, dovrebbe assicurare un consumo acritico e inconsapevole dei contenuti, tale è la voglia di andare in fondo alla faccenda. Che ci riesca o meno, fate voi: vi lasciamo al pari la facoltà di giudizio. Preferiamo piuttosto dare spessore allo scontato: sono evidenti le affinità nei disegni laddove restano la cifra di riconoscibilità dell’autore. E anche i leitmotiv narrativi con la presenza dell’alcool quale fonte di sollievo. Stavolta abbiamo una protagonista mentre l’universo maschile si agita nello sfondo. La caratterizzazione dei personaggi secondari è più rifinita che in passato ed è la misura nelle parole a intensificare la loro presa a effetto. Inoltre, assecondando una antica abitudine che permette ai cartoni animati di essere fruiti tramite doppiaggio, nessun risentimento si impone nell’ascoltarli parlare in italiano. Ogni retorica applicata ai sottotitoli scompare e possiamo sentirci liberi e antifilologici.
Matt Groening, Disenchantment
La vivida resa dei colori si sposa alla perfezione con i cristalli liquidi dei nostri schermi smart. Le immagini sono decise, ad altissima definizione, degne dell’ultima uscita dell’Ubisoft: ambientare questo dispositivo narrativo al tempo del trapassato prossimo collima con l’immaginazione al servizio dei videogames, laddove il medioevo può essere riscritto in funzione dell’alto gradiente magico, lontani dal pervasivo realismo tecnologico coattamente odierno. E poi il sonoro stavolta si impone in maniera determinante: oltre alle precise punteggiature degne del miglior sound design, interventi compositivi raccordano le diverse sequenze affidandosi a una scrittura musicale dal retrogusto antiquato. Insomma, Disincanto è un prodotto decisamente diverso dagli altri al punto da risultare a tratti spiazzante. Ecco perché forse i paragoni restano inadeguati sebbene involontari.
Al momento la prima stagione anticipa la seconda, in attesa che la risposta del pubblico decreti l’aspettativa di vita della principessa Bean e dei suoi amici. Una cosa è senza dubbio certa: se i nati tra gli Ottanta e i Novanta possono risultare scottati al punto da giudicare negativamente l’ennesima fatica creativa di Groening, ai millennials è dato di certificare il successo di questa serie in grado di adattarsi perfettamente alle esigenze di chi, a un futuro già scritto, preferisce un passato da riscrivere.
Antonio Mastrogiacomo