::Quest’anno Meghan si sposa di continuo::
Con questo commento tra quattro due punti, l’autore di Italianasubs.net interviene nell’ultima puntata della settimana stagione di Suits, legal drama made in USA balzato agli onori della cronaca per il coinvolgimento di Meghan Markle, da qualche mese consorte del principino Harry, duca di Sussex. Il tema delle nozze intreccia doppiamente il personaggio. Da un lato l’unione con Mike Ross celebra una liaison durata 112 episodi tra flirt, amare scoperte, frodi varie, ammissione all’ordine e penitenziari; dall’altro segna l’uscita dalla serie dei due, laddove la Rachel Zane della fiction cede il posto alla Meghan Markle del gossip.
Torniamo alla serie: Mike e Rachel finalmente si sposano per metter su famiglia non prima di essersi realizzati in quanto lawyer: ecco perché vanno a Seattle, a guidare uno studio tutto loro dove Mike può riservare il suo talento alle giuste cause, ai pro-bono. Per almeno sei stagioni invece aveva fatto da criptonite: esercitando senza essere nemmeno laureato aveva costantemente esposto lo studio legale a continui patemi, pur nella fondatezza dei risultati portati a casa in qualità di prodigio delle scienze giuridiche. Ogni volta che the firm era assediato dalle continue minacce, family diventava la parola più pronunciata dagli attori coinvolti. Jessica, Harvey, Loius, Donna facevano quadrato: famiglia significa davvero tutto per persone che faticano ad avere una vita al di là del lavoro – o meglio, che confondono il proprio lavoro con la vita, o meglio ancora ci insegnano che si vive per lavorare.
In effetti, questo aspetto diventa fondativo di un’etica delle serie televisive americane, laddove è il lavoro a diventare oggetto della narrazione. Vita quotidiana e posto di lavoro sono infatti gli ingredienti che ogni buon regista, sceneggiatore, autore deve sapere attentamente miscelare al punto da confezionare una zuppa buona per tutti i giorni. Nel caso di Suits ci sentiamo davvero parte della famiglia anche noi: come resistere al fascino sempre misurato di Donna Paulsen, alla calamitica attrazione di Jessica Pearson, alle faccine del vulnerabile Louis Litte, alla compostezza riservata di Harvey Specter?
Sul versante analitico, il disegno della serie è piuttosto standardizzato, con casi proposti e risolti nel giro di quaranta minuti circa, mentre a muovere le fila dell’intera stagione è qualche linea di tendenza più marcata, vuoi l’estromissione del vecchio socio dello studio, vuoi la tiritera della frode, vuoi la class-action di turno. Il tutto è sapientemente segmentato da un sound design ricorrente che accompagna la scena, laddove l’impiego del leit-motiv sposa un minutaggio – e non un personaggio. Come già in Mad Men, sono grattacieli e uffici a offrirsi al nostro attraversamento ottico, case di lusso e splendidi skyline. I personaggi sono in assoluta simbiosi con lo spazio circostante, in grado di tradurre efficacemente le gerarchie in atto. Ogni cosa è illuminata al punto che ogni piccola storia americana, dalle differenze razziali all’assicurazione sanitaria, è bonariamente trattata e risolta – anche la pena di morte, sia chiaro. Un numero di ottani adeguato al carburante della serialità è fornito dai rapporti di coppia, dall’appeal che misura il grado di attrazione tra i protagonisti della faccenda: good cop e bad cop, Harvey e Mike macinano vittorie su vittorie facendo affidamento sulla lucidità dell’ultima trovata, quella dell’illuminazione quando tutto sembra perduto. Il conatus vincendi registra lo spirito con cui i caratteri affrontano la propria vita al netto di un vissuto personale a rischio emersione. Il ritmo narrativo è sempre alto, ogni scena dura non più di tre minuti e la composizione è in assoluto raccordo nel soddisfare immediatamente le attese. Insomma, una sorta di scansione pubblicitaria anima la scrittura di una serie che giudica il monaco dall’abito.
Suits è arrivata alla sua ottava stagione orfana della coppia di copertina, un cambio ai vertici che ha lasciato immutata la sostanza del plot pur non potendo contare su alcuni meccanismi di familiarizzazione mediatica ben oleati nel corso di sette stagioni. Nonostante il cambio di sigla lasci presagire un prosieguo, resta difficile rinnovarsi: il passato prossimo pesa infatti come un macigno sulle sorti dei protagonisti prima che del pubblico laddove non c’è più spazio per la family – se non allargandola.
Antonio Mastrogiacomo