In concorso a Venezia per la 79ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica è l’ultimo film di Luca Guadagnino, “Bones and all”. I suoi film hanno spesso un pubblico ben schierato in fazioni opposte. Nelle proiezioni stampa della mattina pochi complimenti sono giunti dalla sala, non tutti hanno applaudito e addirittura si è sentito qualche fischio. Alla prima serale, invece, il regista e gli interpreti sono stati acclamati con grande emozione. Ma le lunghe file per le proiezioni non sono nulla in confronto a quelle dei fan che aspettano dal giorno prima il red carpet di Timothee Chalamet.
“Bones and all” è il primo film del tutto americano di Guadagnino tratto dall’omonimo romanzo di Camille De Angelis (“Fino all’osso” è il titolo italiano, uscito nel 2015). È la storia di Maren (Taylor Russell), una ragazza liceale, con pochi amici, che scappa dalla finestra per andare a un pigiama party dove è stata invitata. E arriva subito una scena che raccoglie l’attenzione visiva e sonora del pubblico: Maren si avvicina all’amica, sopraffatta dal suo odore e dallo sguardo, fa come per baciarla e, invece, uno scrocchio assordante anticipa la visione di Maren che le morde e mangia il dito.
Maren viene abbandonata dal padre dopo l’accaduto, in un walkman lui le racconta tutti gli altri episodi avvenuti dalla sua nascita, primo fra tutti la baby sitter sbranata a 3 anni. Il suo segreto la fa sentire diversa, sbagliata, un mostro. Ma è una pulsione che non può controllare, è nata così.
Il padre le lascia un certificato di nascita in cui si legge nome e residenza della madre, dalla quale il padre l’aveva tenuta lontana e all’oscuro da sempre. Maren decide di mettersi in cammino per andare a conoscerla. In questo viaggio incontra Sully (Mark Rylance), anche lui si nutre di carne umana e spiega a Maren che molti altri sono come loro e possono essere riconosciuti dall’odore. Sully le dice che non è giusto resistere all’impeto ed è logico saziarsi quando il bisogno diventa impellente. Insieme mangiano una signora in fin di vita, poi Maren se ne va.
Pochi giorni dopo, la ragazza incontra Lee (Timothée Chalamet), un ragazzo trasandato e vagabondo, scappato di casa perché anche lui cannibale. Fanno amicizia, si aiutano, si “nutrono” insieme, si innamorano. Lui le ricorda che non può provare ad avere una vita normale, per loro si riservano tre tipi di destino: uccidere e nutrirsi, suicidarsi, finire in un ospedale psichiatrico.
Ma Maren vuole un destino diverso e i due sembrano riuscire a trovarlo. Il loro riconoscersi e accettarsi è un’evidente metafora dei problemi di emarginazione e accettazione sociale dei “diversi” e di chi vive la propria vita al margine. Guadagnino infatti ha dichiarato che «C’è qualcosa in coloro che vivono ai margini della società che mi attrae e mi emoziona. Amo questi personaggi. Il cuore del film batte teneramente e affettuosamente nei loro riguardi. Mi interessano i loro viaggi emotivi. Voglio vedere dove si aprono le possibilità per loro, intrappolati come sono nell’impossibilità che si trovano di fronte».
La fame di amore si interseca con il desidero di voler ritrovare, anzi, soprattutto accettare se stessi: una volontà possibile solo attraverso l’accettazione di qualcun altro da sé. Anche Chalamet lo ha ribadito in conferenza stampa: «L’idea di isolamento nel film di Luca è fondamentale. Credo che tutti durante la pandemia abbiamo provato una forma isolamento profondo e per capire chi siamo abbiamo avuto bisogno del contatto con l’altro. Credo che nella sceneggiatura ci sia questa profonda delusione per la vita e questo desiderio di contatto con l’altro».
Il messaggio di “Bones and All” non sembra però molto chiaro, nonostante le dichiarazioni del regista di voler parlare di chi vive al margine. Maren e Lee sono due cannibali, un “particolare” che ci ricorda che ciò che stiamo guardando è finzione. Chi sono gli emarginati di cui Guadagnino davvero parla? Citarli in maniera generica potrebbe non essere sufficiente per raccontare pienamene una tematica sociale, per portarla alla luce o denunciarla.
Un riferimento più specifico, alla psicopatia o al sadismo, per esempio, attraverso la chiave del “cannibalismo”, avrebbe potuto forse aprire un dibattito più preciso e significativo. La solita ossessione estetica di Guadagnino (qui scrivevamo del “poster d’artista”) si fonde con una scrittura a tratti ridondante e confusa nelle sue intenzioni. L’idillio raccontato in “Bones and All” rappresenterà sicuramente un’esperienza visiva affascinante e fuori dalle righe ma, forse, non abbastanza strutturata per uscire dalla sala con qualcosa in più.
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