Categorie: Cinema

C’era una volta l’amore di Quentin Tarantino per Hollywood

di - 23 Settembre 2019

Piangere mentre un’intera sala ride è un’esperienza piuttosto straordinaria. Ancor più quando poi non riesci a trattenerti e ti metti a ridere anche tu, pur continuando a piangere. È esattamente quello che mi è successo sabato sera, mentre guardavo il finale di C’era una volta… a Hollywood, l’ultimo film di Quentin Tarantino. Il film è ambientato a Los Angeles nel 1969 ed è, come e più del solito con Tarantino, una dichiarazione d’amore a Hollywood e una rivendicazione genealogica dei modelli – eterogenei ed eterodossi – che hanno influenzato il suo immaginario. I protagonisti, Leonardo Di Caprio e Brad Pitt, sono rispettivamente una star di western televisivi la cui carriera ha preso una china discendente e la sua controfigura/chauffeur/tuttofare nonché migliore amico.

Il fulcro del film sta nel fatto che i vicini di casa di questa coppia di eroi imperfetti e perfino un po’ fessi sono Roman Polanski, all’epoca sulla cresta dell’onda dopo Rosemary’s Baby, e la moglie Sharon Tate (Margot Robbie). Chi conosce un po’ la storia di Hollywood (ma direi dell’America tutta) sa che la sera del 9 agosto 1969 Sharon, ormai incinta di 8 mesi, sarà brutalmente assassinata, insieme a tre suoi ospiti, da alcuni seguaci della setta di Charles Manson.

Nonostante questo evento atroce aleggi sulle immagini sin dall’inizio, per i primi tre quarti di C’era una volta… a Hollywood Tarantino si preoccupa soltanto di stabilire lo spazio soggettivo e ambientale dei suoi personaggi, seguendone le peregrinazioni nell’arco di due giornate alcuni mesi prima della tragedia. Accompagniamo i personaggi in giro per L.A., ed il film si inserisce così nella folta schiera di pellicole che hanno costruito e alimentato il mito della città e della sua geografia. Tra i tanti possibili titoli da citare, a me è venuto alla mente un film misconosciuto, come Model Shop del francese Jacques Demy, di quello stesso 1969, il cui protagonista guida per le colline esattamente come Brad Pitt.

Frame da Model Shop, di Jacques Demy

C’è chi si è lamentato di una narrazione sfilacciata ma senza questo immergersi nei luoghi e nelle scene, la riflessione di Tarantino sugli anni Sessanta e sul loro cinema non sarebbe completa. Da una parte ci sono, infatti, gli omaggi espliciti agli incunaboli del western televisivo e alle rielaborazioni italiane a basso costo dei generi americani (Sergio Corbucci!). Dall’altra, il riferimento al cinema europeo di quegli anni, con i suoi ritmi più liberi e allentati, è elemento cruciale di questa Hollywood che cambia. E Tarantino, che non vuole semplicemente mettere in piedi uno spettacolone con costumi scintillanti, ma cogliere lo spirito del tempo nelle sue varie stratificazioni e contaminazioni, non può che aderire anche a questa forma di racconto.

Detto questo, nella parte centrale non mancano né la suspense (si pensi alle splendide scene ambientate al ranch) né il pathos, e si conferma ancora una volta l’altissima statura di interprete di Leo Di Caprio (la sua lunga sequenza sul set mi ha ricordato per intensità l’indimenticabile audizione di Naomi Watts in Mulholland Drive).

Ma torniamo al finale del film, in cui il regista affonda a modo suo nel nodo dolorosissimo della vicenda: confesso di non essere mai stato un fan della violenza splatter e farsesca di Tarantino. La capisco, la apprezzo anche, ma per me non è un elemento di piacere. Questa volta, però, ho trovato più commovente che altrove il suo tentativo di giustizia poetica, dolente e dolce nella sua spinta protettiva e riparatrice. Quando sull’ultima inquadratura è apparsa la scritta Once upon a Time del titolo del film, che si piangesse o ridesse, la sala è scattata ad applaudire.

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