In Barry Lyndon prende vita la vicenda di un giovane scaltro, spregiudicato e con grandi pretese sociali che, per così dire dal nulla, riesce a costruirsi una certa fama e una vita dorata di eccessi sullo sfondo del grande Settecento europeo. Questo piccolo commento, tuttavia, non si dilungherà sulla trama di questo indiscusso capolavoro. Non perché non ne valga la pena: Kubrick, al contrario, intreccia una narrazione di ampio respiro in cui tutto è ricamato finemente in un gioco di eventi, personaggi e paesaggi ricchissimo, e questa iper-costruzione (con tanto di divisione in capitoli, prologo ed epilogo) non si esaurisce mai nel compiacimento del dramma in costume, ma è sottolineata da una precisa punteggiatura di montaggio che, per esempio congelando il fotogramma dell’uscita di scena del protagonista, rende sempre evidente il farsi del racconto e, in un certo senso, del cinema stesso. Ci preme tuttavia insistere qui su un altro aspetto, apparentemente minore: e cioè il fatto che Kubrick si fece prestare dalla NASA le lenti per girare questo film nella sola luce naturale, e per scolpire le fiamme di candela come in un quadro di Rembrandt. Ma cosa vuol dire portare un dispositivo dall’esplorazione spaziale a quella cinematografica (e storica)? Cosa succede all’immagine, al film, al regista e a tutto quanto se quello che si usa per riprendere le scene è un dispositivo che viene da un altro mondo? Nella lente luminosa per vedere il profondo buio del cielo, tutta la materia di Barry Lyndon acquisisce una profondità e una consistenza: l’obiettivo della macchina da presa diventa strumento di carotaggio per studiare la materia-immagine e la materia-storia. In questo senso sono veramente pochi i film nella storia del cinema che possano dirsi ugualmente ambiziosi, e spesso sorprende quanto questo film non occupi l’immaginario comune quanto dovrebbe. Certo, nemmeno quando uscì a metà degli anni Settanta riuscì a riscuotere lo stesso successo di 2001: Odissea nello spazio, ed è chiaro perché film come Arancia meccanica si siano ben inseriti nel panorama pop con le loro iconiche invenzioni visive e non; ma ci proponiamo qui di consigliare Barry Lyndon perché non si tratta di un’opera minore o secondaria di Kubrick, ma di un lavoro fondativo e imprescindibile.
Una visione curiosa e divertente sotto il segno di Slavoj Žižek, non solo uno dei più importanti pensatori del nostro tempo ma anche il simbolo di un approccio rigorosamente politico di fare cultura. Non si capisce se sia giusto chiamare questo singolare oggetto ‘documentario’: è vero che somiglia ad una guida ma, come già si può intuire dal titolo, questa non è una guida neutra, non ci porta attraverso una storia del cinema ordinata, canonica – e francamente noiosa; Žižek perverte invece le rotte nel senso più profondo del termine, parlando incorniciato dai set e dai luoghi di alcuni dei più importanti film di sempre, da Vertigo – La donna che visse due volte, a Strade perdute di David Lynch, a Matrix. Ma questo non è un semplice gioco dissacratorio, non sono facili barzellette condite dall’iconico accento del filosofo. Certo, si ride volentieri mentre Žižek annaffia quegli stessi tulipani dell’inizio di Velluto Blu (uno dei capolavori lynchiani) dicendo che tutti i fiori dovrebbero essere banditi perché osceni (“aspettano di essere fottuti”); ma è proprio questa ironia che evidenzia la necessità di prendere con le pinze le letture freudiane. Žižek infatti, partendo da un approccio psicanalitico relativamente accessibile, apre a interpretazioni niente affatto pigre e rilassate, scavando a fondo e non accontentandosi delle solite analisi ma aprendo a una visione il più possibile caleidoscopica. Così i mostri sacri e i momenti cruciali della storia dell’immagine in movimento risplendono ancora e ancora e si fanno apprezzare sotto luci diverse tanto dai cinefili esperti quanto dagli spettatori alle prime armi.
A 92 anni e quasi 50 film all’attivo, Frederick Wiseman è uno dei più importanti registi sconosciuti, o quantomeno poco citati, della storia del cinema. Documentarista instancabile che ha meticolosamente mostrato gli Stati Uniti tra manicomi, ospedali, parchi, zoo, scuole, istituzioni politiche, sociali e culturali fino a intere città, Wiseman ha documentato il mondo contemporaneo come nessuno può dire di aver fatto, addentrandosi nei punti nevralgici dell’Occidente, luoghi chiave per comprendere un paese e un popolo portando però la riflessione ad un livello più ampio che riguarda in generale l’esperienza umana. In questa occasione ci preme consigliare uno dei suoi film più celebrati e accessibili: National Gallery, una delle poche incursioni del regista al di fuori degli Stati Uniti. Il film mostra, come da titolo, la vita e i ritmi del museo londinese in tutti i suoi aspetti, da quello pubblico e di facciata a quello nascosto fatto di riunioni organizzative, restauri scrupolosi, pulizie e operazioni di installazione. Wiseman si sposta tra gli spazi del museo tramite inquadrature statiche che da un lato legano le sequenze fra di loro e dall’altro costruiscono il ritratto del luogo che diventa sempre più completo durante la visione. Anche le scene all’apparenza meno interessanti diventano dinamiche inserendosi perfettamente nel ritmo dell’opera grazie al miracoloso montaggio sempre in mano al regista. Il senso del film infatti risiede proprio nel montaggio, in grado di esplicitare il rapporto invisibile che lega spettatore e opera esposta nell’incontro degli sguardi reciproci. Nel passaggio dal dettaglio di un dipinto al volto dei visitatori si apre una riflessione attorno all’esperienza della visione, che riguarda non solo coloro che sono fisicamente davanti al quadro in quel momento ma anche chi sta guardando lo schermo, portando ad un ritorno costante dello sguardo. National Gallery quindi non è un documentario istituzionale a scopo istruttivo, come può sembrare a prima vista, ma un film che trattiene al suo interno tanto una documentazione delle diverse dinamiche che animano questo luogo fondamentale per la cultura quanto una riflessione sulla complessa relazione tra le persone e le opere d’arte, rendendolo così l’ennesimo prezioso tassello di una filmografia essenziale.
Seconda prova cinematografica del regista e artista visivo Yuri Ancarani, Atlantide ci mostra il lato più selvaggio e notturno di Venezia, il rovescio nascosto della città-bomboniera. È il mondo dei giovani di laguna, che sui loro barchini truccati e illuminati al neon sfrecciano nei canali alla rincorsa di un irraggiungibile record di velocità. La trama segue le vicende di Daniele, adolescente dell’isola di Sant’Erasmo alle prese con l’ambizione e il senso di inadeguatezza suscitati da un ambiente altamente competitivo, dove pur di segnare un tempo migliore sul cronometro si mette a rischio la propria vita. Più che per la narrazione in senso stretto, però, l’attenzione del regista è per il potenziale visivo del tema scelto: si passa da momenti di taglio documentaristico (gli attori, protagonista compreso, non sono professionisti ma ragazzi del luogo) ad altri più contemplativi – come la scena dei tuffi dalla gru, piccolo capolavoro di composizione fotografica – per arrivare, infine, alla sequenza della corsa notturna per la città, dove le immagini di Venezia sono progressivamente disciolte nei riflessi allucinati dei neon fino a perdere ogni legame con l’abusata e corrosa iconografia cittadina. Ad accompagnare il tutto è la colonna sonora originale di Sick Luke, storico producer della Dark Polo Gang, che – al di là di qualche momento esageratamente “pittoresco” – si mostra capace di evitare gli stereotipi del genere, proponendo un tessuto sonoro complesso e variegato che, mescolandosi al lirismo del sound design di Lorenzo Senni, riesce a costruire sequenze sorprendenti. Solo la trama, talvolta, risulta quasi ingenua e forse superflua; ma la sapienza di regia e fotografia di Ancarani riesce comunque ad arrangiare un esito coraggioso e lungimirante, che risponde almeno parzialmente alla domanda impossibile: come fare, oggi, un film su Venezia?
Hitler, Mussolini, Stalin e Churchill entrano in purgatorio dove trovano Gesù e Napoleone. È questa la premessa del nuovo film di Aleksandr Sokurov, uno dei più importanti registi russi di sempre, che miracolosamente è sbarcato nelle sale italiane dopo un passaggio ai festival. Sokurov è celebre soprattutto per il suo film Arca Russa, girato interamente in piano sequenza all’interno dell’Ermitage a San Pietroburgo, ma la sua sperimentazione inizia già dagli anni 70. Si potrebbe vedere questo ultimo film, realizzato a distanza di 7 anni dal precedente Francofonia, come una chiusura della celebre tetralogia del potere, costituita dai film Moloch (1999), Toro (2001), Il Sole (2005) e Faust (2011), quest’ultimo anche vincitore del Leone D’Oro al festival di Venezia. Fairytale sembra infatti un naturale prosieguo della riflessione del regista sul potere totalitario e sull’immagine del leader, che avviene qui attraverso una sperimentazione decisamente nuova. Infatti, i quattro leader novecenteschi citati non sono interpretati da attori, come nei film precedenti del regista, ma sono mostrati attraverso vere immagini di repertorio accuratamente selezionate, montate e modificate utilizzando la tecnica del deepfake per far dire loro parole che non hanno mai detto. In questo sta l’elemento fiabesco del titolo: non è possibile che questi quattro personaggi si siano incontrati, ma se l’avessero fatto cosa ne sarebbe uscito? Gli spettri dei leader vagano per un purgatorio estremamente artefatto, creato a partire da suggestioni come le tavole di Piranesi, le illustrazioni della Divina Commedia di Gustave Doré e i disegni di Dürer e Hubert Robert, tra rovine maestose e lande desolate, nella nebbia e nel vento. Dalle immagini di repertorio Sokurov ha selezionato dei frammenti precisi che mostrassero i protagonisti in momenti di riflessione e intimità, in cui il loro privato si mostra nel pubblico esponendoli nella loro umanità. Ciò che ne consegue è una sequela di dialoghi tra i diversi personaggi che in alcuni momenti si moltiplicano, interagendo con loro stessi nelle proprie diverse apparenze. In attesa del paradiso o dell’inferno, i leader carismatici scherzano e si arrabbiano gli uni con gli altri, riflettono sulla propria esistenza, sul passato e sul futuro, sulla propria immagine e quello che ne sarà.
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