La vicenda autobiografica che portò Steven Spielberg ad innamorarsi del cinema, il documentario di Werner Herzog sulla ricerca di resdui cosmici, tra oceani infiniti e paesaggi meravigliosi; gli eventi che narrano le gesta del “killer dello Zodiaco”, capolavoro di David Fincher, la violenza di genere che emerge nella storia di “Mademoiselle” di Park Chan-wook e infine le vicende di una giovane ragazza immischiata con la malavita nella densità della Berlino notturna. Le festività offrono un’occasione per dedicarsi al grande cinema e ai film in grado di incollarci per ore allo schermo: ecco la nostra selezione della settimana (unico spoiler: non ci troverete cinepanettoni!)
Un poeta scriveva: <<I documentari mi fanno sempre credere in Dio>>, e non c’è cinema documentario che più di quello di Werner Herzog faccia sentire vicini a questo verso.
Compiuti sessant’anni di carriera, Herzog continua a mostrare la meraviglia dell’esploratore (anche con la sua ultima pellicola uscita quest’anno, The fire within: Requiem for Katia and Maurice Krafft il cui arrivo in Italia si attende ancora impazienti): Fireball si è da subito collocato nella vasta produzione del regista incastrandosi perfettamente nella sua ricerca e condensando moltissimi tratti e ossessioni del suo autore rintracciabili in tutta la precedente filmografia. Come suggerisce, cripticamente forse, il titolo, Herzog, camera in spalla, accompagnato dal suo amico Clive Oppenheimer, scienziato e qui anche regista, attraversa paesi e oceani sulle tracce dei meteoriti arrivati, in modo più o meno clamoroso, sulla Terra e di chi se ne prende cura. ‘Cura’ può apparire probabilmente come una curiosa scelta lessicale, eppure risulta perfettamente calzante: Herzog, pur ricordando spesso un wanderer di ottocentesca memoria, non si impone mai violento nel lavoro di studioso e sembra piuttosto accarezzare la ricerca e i suoi oggetti, avvicinandosi cautamente alle terre e alle persone che, a loro volta, abitano il film in modo altrettanto delicato e intelligente. Le inquadrature affamate, le immagini cariche e magnifiche e le acute riflessioni che le accompagnano restituiscono tutta la meraviglia non solo del regista ma anche dei personaggi da lui seguiti e intervistati, che siano essi musicisti jazz norvegesi con una passione per la cosmologia o ricercatori nel mezzo dell’Antartide che camminano nell’immenso bianco del suo ghiaccio per rintracciare testimoni caduti dallo spazio profondo. Lo stupore per la ricerca, per lo studio, per la scienza come per approcci e saperi non rigidamente disposti è il dunque del lavoro di Herzog: dall’infinito blu sorvegliato da night watchers in cerca di minacce per il nostro pianeta all’analisi microscopica delle particelle di polvere interstellare, quella che ci viene insegnata è una passione irresistibile per le immagini.
Sembrerà strano dover consigliare un film di Steven Spielberg, uno dei più rinomati e celebrati registi di sempre; questo, però, non è “solo un film di Spielberg” ma il suo film più personale, intimo e sentito, una di quelle opere che accadono una volta sola, ed è fondamentale vederlo sul grande schermo. Il 10 gennaio 1954, Arnold e Mitzi Fabelman portano il figlio Sammy a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. <<I film sono sogni che non dimenticherai mai>>, dice la madre al figlio per prepararlo ad una visione sconvolgente che gli toglierà il sonno ma gli cambierà la vita. The Fabelmans è una storia autobiografica basata sul periodo tra i 7 e i 18 anni della vita del regista stesso, che a quasi ottant’anni decide di portare sul grande schermo per poterla condividere con il pubblico. La scoperta del Cinema, gli esperimenti con la pellicola, i viaggi in famiglia, i trasferimenti, i litigi, gli affetti: un compendio di eventi fondamentali che davanti alla cinepresa diventano spettacolo, meraviglia. Non è un film cinefilo, solo per appassionati, ma mostra la crescita di un cine-figlio grazie al cinema e la relazione così profonda e carnale che si può avere con un’ossessione. Dopo il suo primo esperimento con la cinepresa, il piccolo Sammy proietta le immagini filmate sulle proprie mani giunte come a creare uno schermo; questo momento, osservato con gli occhi spalancati diventa cruciale per comprendere quell’emozione totalizzante che prende corpo nel regista davanti alla propria creazione. Si vede il rapporto con le immagini sempre come fisico, poiché la realizzazione di film in pellicola prevede una grande quantità di lavoro pratico sia in fase di ripresa sia in fase di montaggio, ed è qui che si vede l’amore che si può provare verso una modalità d’espressione come il Cinema. L’arte però si scontra con la famiglia, luogo degli affetti ma anche dei dolori: “ti spezzerà in due” dice lo zio Boris al giovane Sammy che si ritroverà a dover fare delle scelte e a confrontarsi con dei problemi che sembrano insormontabili. The Fabelmans però non è semplicemente un atto autocelebrativo per parlare di sé, ma il tentativo di portare la propria storia al di fuori di sé per renderla universale. Gli occhi si spalancano e scendono le lacrime, Arte e Vita si sovrappongono grazie alla lente di una cinepresa e il Cinema si mostra in tutta la sua meraviglia.
Zodiac narra gli eventi riguardanti il killer dello Zodiaco, uno dei più celebri ed enigmatici serial killer di sempre, dal punto di vista di Robert Graysmith, un vignettista che ha indagato personalmente l’identità dell’omicida. Il film, tratto dal libro dello stesso Graysmith, inizia con il primo omicidio confermato di Zodiac, nel 1969, e procede mostrando da un lato ciò che è accaduto all’interno dei vari giornali a cui il killer mandava le lettere cifrate, e dall’altro le indagini della FBI. Fincher, con la sua immancabile precisione maniacale, realizza un film-enigma, un resoconto degli eventi che però non è solamente una drammatizzazione della cronaca nera ma, anzi, un tentativo di analizzare il mistero e l’ossessione che provoca la non-risoluzione dello stesso. Graysmith non riesce a togliersi dalla testa lo Zodiac Killer, più cose riesce a capire e più sembra di avvicinarsi alla soluzione e noi spettatori con lui crediamo di poter essere vicini alla fine del mistero. Le prove ufficiali così come vengono presentate, danno l’idea di poter capire l’identità dell’omicida come se questa fosse nascosta all’interno del film. La regia di Fincher è, come sempre, dimostrazione della sua grandissima capacità di usare la cinepresa come strumento per guidare lo sguardo all’interno della scena, orientandosi nei grovigli della storia e costruendo una tensione che pervade ogni sequenza. Tra narrazione soggettiva basata sulle testimonianze personali e resoconto cronachistico, tra il true crime e il giornalismo d’inchiesta, tra il racconto falsato e quello ufficiale, Zodiac si spiega davanti a noi ogni volta come un puzzle da completare in cui manca sempre il pezzo centrale, e noi continuiamo a vederlo sperando che sia la volta buona che quel pezzo salti fuori.
Park Chan-wook, premiato quest’anno al festival di Cannes, si è sempre dimostrato essere una delle voci più interessanti del cinema coreano del nuovo millennio, a partire da Oldboy (2003) che è diventato istantaneamente un cult dal grande seguito sia in Oriente sia in Occidente. Con Mademoiselle, però, realizza quello che secondo noi è il suo film più riuscito, coniugando una forma impeccabile con una narrazione a incastro precisa e trascinante. La storia inizia con Sook-hee, una giovane borseggiatrice, che viene assunta come domestica di Hideko, un’ereditiera orfana che vive reclusa nella grande villa dello zio, un collezionista di libri erotici intenzionato a sposarla per avere il suo patrimonio. L’assunzione di Sook-hee, però, fa parte di un piano escogitato da un truffatore che vuole a sua volta impadronirsi degli averi di Hideko e per fare ciò gli serve l’aiuto della giovane domestica per poter rompere gli equilibri della casa. Queste sono solo le premesse di un film dirompente e calcolato al millimetro, che non smette di stupire scena dopo scena con cambiamenti inattesi ed emozionanti. Si potrebbe dire che Mademoiselle sia un’opera che mostra il potere dello sguardo e della rappresentazione: Hideko è costretta dallo zio a leggere i suoi libri erotici davanti ad un pubblico di soli maschi, uno spettacolo pornografico in cui ogni parola è portatrice di carica sessuale e serve a far affiorare le immagini nella mente dei colti spettatori che, così, possono immedesimarsi e poi comprare i libri a prezzi esorbitanti. L’ereditiera è costantemente attaccata e svilita dagli sguardi, e il piano del truffatore è solo l’ennesimo tentativo degli uomini di impadronirsi di lei e dei suoi soldi; ma l’intrusione di Sook-hee è lo scarto necessario per poter scardinare il potere maschile, fisico o mentale che sia. Park Chan-wook non perde mai il controllo e riesce a tenere alta la tensione attraverso una regia magniloquente e vorticosa, aiutata da un montaggio in grado di rimescolare continuamente i tasselli della trama in base al punto di vista che si sta seguendo. Successivamente alla presentazione a Cannes, questa grande opera è stata giustamente riconosciuta da diversi premi internazionali ed è presto diventata un cult tra gli appassionati.
Da una discoteca a una rapina a una fuga forsennata con lo sfondo di una Berlino notturna, tranquilla ma che nasconde un’irrequietezza pronta a esplodere, Victoria è la storia di una ragazza qualunque (interpretata eccezionalmente dall’attrice spagnola Laia Costa) che si ritrova catapultata nel crimine nel giro di poche ore. Questo film si è fatto notare per essere uno dei più lunghi in totale piano sequenza, senza nessun taglio di montaggio, e questo lo inserisce in una tendenza di sperimentazione che ha preso piede soprattutto negli ultimi anni; dopo i notevoli esempi di Arca Russa di Aleksandr Sokurov e Birdman di Alejandro Inarritu. Victoria non tenta imprese grandiose come i due film citati, ma sfrutta le potenzialità della tecnica per raccontare una storia normale ma in costante tensione, in grado di tenere incollati alla sedia per più di due ore. Il piano sequenza non è mero sfoggio di virtuosismo e sembra piuttosto l’unica possibilità di racconto, poiché la visione “in tempo reale” permette di vivere diversamente l’azione, che diventa più tangibile e palpitante. Schipper riesce a mantenere l’attenzione sempre attiva passando da momenti più rilassati a sequenze di forte intensità, grazie ad un uso della cinepresa sempre attento e misurato nel muoversi tra i corpi e gli spazi. A sei anni dalla sua uscita, il film rimane un esperimento decisamente interessante, in grado di rapire lo sguardo e trascinarlo ai confini di una notte sempre in equilibrio tra bene e male, tra ombre e luci colorate.
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