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Cate Blanchett bionda. Cate Blanchett mora. Cate Blanchett rossa. Cate Blanchett triste, arrabbiata, entusiasta. In TV, in ufficio, a casa a pranzo. La preghiera preprandiale coi tre figli e il marito – davanti a un enorme tacchino innaffiato di gravy e servito con verdure sbiadite – è il Manifesto Pop: che l’arte puzzi come i miei calzini, che l’arte esca dai musei, che l’arte si beva come la coca-cola. Geniale.
È una broker impanicata davanti al computer, le azioni che impazzano, che afferma “che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità”, è il Manifesto Futurista, che più avanti vuole “liberare questo Paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”.
Al cimitero, elegantissima in nero, in una versione anni ’30, iraconda davanti a un parterre compito e attento, ci vuol convincere – con Tristan Tzara – che “Un’opera d’arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all’unanimità. La critica è inutile”. Eccetera, eccetera.
I manifesti più famosi e quelli oscuri traboccano dalle 12 o 13 versioni di Cate, un grande omaggio a una grande attrice, a Hollywood, all’industria del cinema e del trasformismo, tenendo però l’arte, l’arte militante al centro.
E alla fine è una barbona, accompagnata da carrello e cane, la stessa che apre il film, camminando in mezzo a un non luogo fatto di archeologia industriale e architetture da Buckminster Fuller, che ci vomita addosso gli ultimi insulti contro una società che di capitalismo morirà. Amen, Carlo Marx.
Dopotutto, il Manifesto più famoso è il suo.
Marcella Vanzo