Iniziamo facendo spoiler: se non siete tra i pochi fortunati che hanno potuto vedere “The Square” a Cannes, dove ha vinto la Palma d’Oro, o a Roma lo scorso ottobre dove si era tenuta una proiezione stampa, sappiate che i media vi mentono.
Che è poi, in parte, la trama su cui si regge parte del film.
Il New York Times ha scritto “Geniale e da morire dalle risate”, il Guardian “Pura stravaganza da applausi”: forse un paio di clip sono esilaranti, sì, ma sono le stesse che avete visto nei trailer al cinema negli ultimi giorni, e per le quali – appunto – vi aspettereste che il lungometraggio dello svedese Ruben Östlund sia un attacco provocatorio al sistema dell’arte e ai suoi falsi miti.
No, “The Square” è un’amarissima cartolina della nostra società e delle invidiatissime e produttivissime realtà del Nord Europa, che usa il percorso sull’arte di oggi solo per ampliare un discorso sociale.
L’opera immaginaria, The Square appunto, è definita come un “Santuario” di 4 metri per 4 all’interno del quale ognuno ha uguali diritti e doveri (di ascolto, partecipazione e mutuo aiuto) è un pretesto scenico, un sottofondo per dimostrare come la nostra vita sia un’opera. Assurda e inutile all’atto pratico, piena di “buone intenzioni” e azioni che – in una società “pensante” – sarebbero semplici gesti quotidiani.
The Square, Ruben Östlund
Qui, invece, è inserendovi all’interno dell’area che occupa The Square che potrete chiedere aiuto o ascolto, e gli altri saranno obbligati a far fronte alla vostra esigenza. “The Square”, il film, è la dimostrazione che per qualsiasi azione della vita come la intendiamo a queste latitudini serva una regola, uno schema. “The Square” è il quadrato, la più regolare delle forme, quella che si associa metaforicamente alle persone tutte d’un pezzo. Qui, dal primo all’ultimo personaggio, ognuno fa quadrato alla propria misera esistenza. C’è il curatore, Christian, inviperito con chi gli ha rubato il cellulare e il portafogli con un tranello messo in atto proprio con una richiesta d’aiuto, pronto a farsi giustizia da solo andando in periferia seguendo le tracce del GPS del telefono; il giovane assistente immigrato, ovviamente più vendicativo e più impaurito dalla Stoccolma che non guida le Tesla; i due stupidi millenials dell’Agenzia di Comunicazione che vivono per diventare virali e il board del museo che non si rende conto di mettersi una bomba a mano in casa, nel momento in cui si accetta il video di propaganda di The Square che mostra una bambina homeless ma svedese, che esplode all’interno del quadrato.
Sembra tutta una storia vecchia: la truffa con la scusa umana, i video promozionali che devono scandalizzare perché nessuna storia di pace, nessuna idea “zen” farebbe parlare alcun giornale, il ladro del telefono che vive in periferia.
The Square, Ruben Östlund
Ancora: la nenia paranoide-persecutoria del “non-vado-a-letto-con-chi-capita” della giornalista americana Anne, che a Stoccolma si concede una notte di sesso con Christian (e mai amplesso sembra essere stato più noioso) dopo una di quelle terribili feste dentro al museo (che si chiama X-Royal) dove a ballare ci sono vecchi e giovani che nulla hanno da spartire se non l’essere parte dello stesso sistema.
Il risultato è che, arte a parte (anche se una delle prime battute è che un museo è un’azienda bisognosa di denaro sicché Christian potrebbe essere stato anche un CEO, un avvocato, un commercialista, un imprenditore) si entra vorticosamente e quasi senza accorgersene in un affresco grottesco dove ogni personaggio ha la propria squallidissima dimensione da affrontare. Non sono risparmiati nemmeno i bambini, le figlie perennemente attonite del capo-curatore, la mendicante che irrita al primo sguardo e chiede esplicitamente soldi e, in mancanza di contanti, avanza pretese culinarie sul cibo offerto; persino il ragazzino urlante che promette di gettare la vita di Christian nel caos se non gli verrà chiesto scusa è un personaggio così arrogante che fa quasi piacere il fatto che queste “scuse” alla fine non arriveranno mai.
E poi c’è Christian, appunto, la maschera che confonde essere e finzione, “preparato” anche quando mette da parte gli appunti, che getta esso stesso la sua ordinatissima vita in un mezzo caos perché – per una volta soltanto – non aderisce alle sue sovrastrutture.
La corsa al buffet, il talk inutile e borioso interrotto dal disturbatore che però “va accettato” per via della sua malattia e la proiezione del video promozionale di The Square sono forse gli unici momenti di tregua di una sceneggiatura che fa saltare maschere e altarini mostrando manie e fobie a 360 gradi, come se oltre alla prima telecamera ve ne fossero anche altre, invisibili, in grado di catturare dall’interno il carattere umano e il suo essere animale socialmente modificato.
Un film travestito e spietato, che vi metterà di fronte a tutto quello che già sapete e che non avete il coraggio di affrontare, sia che siate “art lovers” o semplici cittadini.
Matteo Bergamini