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«Ni de lian è un esperimento che si colloca tra un documentario, un film di finzione e un lavoro di videoarte». Con queste e altre parole, raccoglievo un invito a presentarmi mercoledì, 24 ottobre, presso il cinema teatro Astra, lungo via Mezzocannone, Napoli, intorno alle 17. «L’ultimo film di Tsai Ming Liang, 你的 (nǐ de liǎn)— Your Face (Taiwan, 2018, 76’), fuori concorso a La Biennale di Venezia – seguitava – è presentato Paola Paderni, dell’Istituto Confucio Napoli insieme ad Enrico Ghezzi». Nonostante le pagine sponsorizzate, la effettiva comunicazione a mezzo stampa, le diverse campagne di sensibilizzazione sull’iniziativa “Venezia a Napoli”, senza questo post difficilmente avrei messo piede all’incontro. Questo per dire che più dei soldi al social, quello che paga davvero è un certo modo di fare passaparola, alle volte in bacheca, se efficacemente non messo a tacere dal social stesso. Ma andiamo oltre lo schermo.
Venezia raggiunge Napoli circa un mese dopo la kermesse del lido, comunque prima che alcuni titoli abbiano trovato riposo nell’archivio di Netflix. E arriva a Napoli nell’autunno caldo della cinematografia a ogni orario, se è vero che, oltre al cinema esteso di “Venezia a Napoli”, ci sono anche “Cinema Mon Amour”, sempre all’Astra e in orari finalmente non serali, e “Trame e intrecci” presso la Mediateca Santa Sofia, a infittire la ragnatela degli appuntamenti cinematografici in una città che Antonella di Nocera, organizzatrice dell’ottava edizione della rassegna di film e incontri dal programma della stavolta 75esima mostra internazionale d’arte cinematografica, immagina come cittadella dell’audiovisivo, oltre i soliti muri invisibili del centro storico. Resta opportuno segnalare una certa risorgenza cinematografica, da un lato incoraggiata da un presidente della regione che non perde occasione di raccontarlo in virtù dei fondi erogati, dall’altro effettivamente vissuta da tanti operatori del settore che, strenuamente, senza quei famosi fondi sapientemente erogati, riescono a costruire un’alternativa, semmai grazie alla didattica.
Your face (Ni de Lian) di Tsai Ming-linag
Alla cassa poca fila, tutti fuori quelli dell’attesa tattica, a mostrarsi in questo dramma tutto moderno della presenza. Sono studenti, professori, giornalisti, insieme a gente coercita dal credito di turno. Sono operatori della rassegna, guardie dell’università, incuriositi. Aspetto che tutto abbia inizio comodamente seduto, da solo, non lontano dall’ingresso. Al momento dello sbigliettamento, la calca è misurata. Il cinema Astra, frequentato durante i corsi universitari, resta la solita struttura di fortuna dal potenziale dinamitico. Enrico Ghezzi è introdotto da un giornalista di Repubblica, caporedattore culturale decisamente generalista nel posizionare tre domande la cui risposta poteva tranquillamente essere: «Barbabietola da zucchero». Per fortuna, Ghezzi, sebbene visibilmente provato dalla vita avanzata, risponde con un carico vitalista. E ricorda del cinema come possibilità di dimenticare meglio, in aperto contrasto con la moda dell’accumulo di tecnologica memoria, laddove non risponda a urgenza qualitativa ma esclusivamente quantitativa. Insiste su questo aspetto, presentando la struttura cristallina e fragile del film in proiezione, laddove velocità e durata non restano un feticcio.
Così, davvero in pillole, il film resta scorrevole, fondato di una autonomia a-spettacolare: una telecamera interroga il volto di “attori” che forse non recitano, eppure si lasciano andare al suo occhio quasi confessionale, mentre la sonorizzazione orizzontale, pur nella verticalità della tessitura del più noto Sakamoto, insiste sul confezionamento audiovisivo del prodotto che abbiamo davanti, nella sua spettacolare contraddizione tra una esponibilità massima e una distribuzione quasi assente. Non avrebbe senso vedere questo film dallo schermo del proprio laptop, lamenteremmo di non essere investiti dalla grandezza cinematografica di un volto che si fa scultura senza spessore in accordo allo statuto bidimensionale dell’immagine in movimento. Le storie sono messe una accanto all’altro, laddove il silenzio dà respiro all’immagine. Il regista resta voce e intelligenza fuoricampo, limitandosi a intervenire per lasciare scorrere il flusso dell’intervista controllata: fotografia e cinema non sono mai state così vicine, a partire dalla riflessione sul ritratto.
Qualora ogni segmento fosse stato risolto nella verticalità, attraverso una concezione multimediale, ci saremmo trovati forse di fronte a un lavoro alla Studio Azzurro; invece sono montate orizzontalmente su un unico schermo, tutti i volti di profilo tranne quelli di apertura e di chiusura, a noi frontali; volti che sanno di essere destinati a un pubblico cui si rivolgono facendo ricorso a un tu che è una chiamata alla responsabilità dello spettatore. Così, l’ultima inquadratura di questo salone in dissolvenza verso il nero, chiude le porte della macchina da presa e ci consegna ai titoli di coda, mentre in fila lasciamo il posto alle proiezioni che saranno.
Antonio Mastrogiacomo