Laureato in filosofia e diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, Enrico Maria Artale inizia il suo percorso dietro la macchina da presa in teatro, filmando, in rigoroso silenzio, il grande maestro Luca Ronconi. Autore di numerosi cortometraggi, nel 2012 vince il Nastro d’Argento per Il respiro dell’arco. Nel 2013 approda alla Mostra del Cinema di Venezia aggiudicandosi il premio Pasinetti Opera Prima per Il terzo tempo. Nel 2023 torna a Venezia con il suo secondo lungometraggio El paraiso che vince tre premi: miglior sceneggiatura, miglior attrice, miglior film italiano. Ha lavorato in serie internazionali firmando la regia di episodi di serie di successo come Sanctuary, Romulus e Django.
Quando hai deciso di prendere in mano una macchina da presa?
«Dopo il liceo, avevo l’intenzione precisa di dedicarmi al cinema, ma due fattori mi hanno influenzato: il primo era l’età, perché per entrare al Centro Sperimentale dovevo avere almeno 21 anni, e il secondo è stato il mio crescente interesse per la filosofia e le lettere antiche. Così mi sono iscritto all’università, promettendomi che avrei studiato un anno e poi sarei andato al Centro Sperimentale. Invece mi sono innamorato degli studi accademici. Ma non mi rispecchiavo nell’accademico puro: sono troppo iperattivo. Così, dopo la laurea, sono tornato alla mia prima passione, il cinema».
Hai lavorato con Luca Ronconi, grande maestro del teatro che però non ti ha allontanato dal cinema…
«È stata una delle prime esperienze lavorative che ho avuto, circa vent’anni fa. Grazie a un amico, ho avuto l’opportunità di filmare le sue lezioni nella sua scuola di Santa Cristina. Doveva essere un lavoro di una settimana, ma diventarono tre mesi quando la RAI ci chiese di restare per realizzare uno speciale. Era affascinante osservare Ronconi lavorare da così vicino. Non dicevo una parola, filmavo soltanto, ma l’esperienza mi ha segnato profondamente. Ho imparato molto sul rapporto con gli attori e, a distanza di anni, mi ritrovo a ricordare i suoi metodi».
Tra le tue prime esperienze, un cortometraggio. Molti considerano i cortometraggi solo una palestra per i lungometraggi. Pensi siano solo questo? Sono adatti a ogni regista?
«Non tutti i registi sono adatti ai corti. I registi con un forte approccio visuale ed evocativo possono trovare nel cortometraggio una forma d’espressione potente. Pensa a David Lynch, Martin Scorsese o ai fratelli Coen. D’altra parte, per chi si concentra su narrazioni complesse, romanzesche, il corto può risultare frustrante e forzato. Personalmente, i corti sono stati una parte fondamentale del mio percorso, ma non credo siano una tappa obbligatoria per tutti i registi. È più una questione di ispirazione e di ciò che vuoi raccontare».
“Il Respiro dell’Arco” ha avuto un percorso importante. Come ti ha influenzato?
«Quel corto, frutto di un’ispirazione folgorante, ha avuto un percorso internazionale che non mi sarei mai aspettato. Ha cambiato radicalmente l’inizio della mia carriera. I cortometraggi, soprattutto in Italia, purtroppo hanno poca visibilità, ma quel lavoro mi ha permesso di farmi conoscere».
Il Terzo Tempo è stata la tua opera prima e l’ha prodotta De Laurentiis. Come è stata quell’esperienza?
«Il Terzo Tempo è nato su commissione, quindi è meno personale rispetto ad altri progetti, ma è stato il mio debutto. Avevo 28 anni e stavo ancora completando gli studi. A posteriori, vedo quel film come una deviazione verso un tipo di cinema più leggero, ma mi ha dato l’opportunità di fare un lungometraggio senza dover seguire un percorso tradizionale da assistente regista».
Hai vinto il premio per la miglior sceneggiatura a Venezia con El Paraiso. In Italia si dice spesso che mancano buone sceneggiature. Qual è il tuo punto di vista?
«Non è tanto la mancanza di sceneggiatori, ma ci sono differenze strutturali nel modo in cui il cinema è spesso considerato in Italia rispetto ad altre realtà come gli Stati Uniti. Qui, il film tende a essere identificato con il regista, mentre negli Stati Uniti, ad esempio, sceneggiatori indipendenti scrivono copioni che poi passano ai registi, mentre da noi il film si costruisce attorno a un regista che spesso scrive la propria sceneggiatura o collabora con sceneggiatori di fiducia. Tuttavia il panorama della sceneggiatura sta evolvendo, soprattutto nel campo della serialità».
Stai lavorando alla serie Un prophète dopo 15 anni dal film di Audiard. Molte tematiche sono evolute, come il radicalismo e le bande. Come hai lavorato?
«È stata un’esperienza molto intensa. La serie è ambientata nelle carceri di Marsiglia, e ho fatto un grande lavoro di ricerca sul campo. Sono andato nelle periferie, ho passato tempo con le persone, non solo con i miei collaboratori, ma anche con i ragazzi del carcere, con attori non professionisti. Non lo facevo solo per fare una buona serie, ma perché conoscere nuove realtà umane è una delle cose più belle del mio lavoro. È un privilegio poter vivere esperienze che altrimenti non potresti mai avere in modo così diretto e non turistico. Quando arrivi in un luogo con un approccio sincero e trasparente, si crea subito una connessione.
Il mondo carcerario è cambiato molto rispetto al film originale: oggi le prigioni sembrano centri di detenzione giovanile, popolate quasi esclusivamente da ragazzi sotto i 35 anni. Ho lavorato a stretto contatto con attori professionisti e non, riscrivendo la storia anche in base alle loro esperienze. La serie sarà diversa dal film, sia per il contesto sociale che è cambiato, sia per lo stile. Non volevo semplicemente rifare Il profeta, ma raccontare una nuova storia».
Quando ti è stata proposta la regia della serie, come ti sei sentito?
«Inizialmente ero un preoccupato, soprattutto perché la realtà sociale che dovevo raccontare non è quella italiana: noi non l’abbiamo vissuta nello stesso modo e questo mi spaventava. Un’altra mia paura era più banale: ero molto stanco dopo aver lavorato alle altre due serie, Romulus e Django, e pensavo di prendermi una pausa. Ma non si riceve due volte un’opportunità del genere. I produttori mi dissero che diversi registi più esperti di serie francesi avevano rifiutato il progetto per paura della reazione mediatica, data la popolarità del film originale su cui si basava la serie. Così hanno pensato che un regista italiano con esperienza internazionale, potesse affrontare meglio questa sfida».
Altri progetti?
«Tanti, ma voglio continuare a scrivere e dirigere opere che riflettano le complessità della vita contemporanea. Sto lavorando a un film che verrà girato in Francia. Dopo aver lavorato a stretto contatto con la realtà francese per la serie, mi sono reso conto che ci sono ancora molte cose da raccontare. La società francese riflette molte delle tensioni sociali ed economiche che si vivono a livello globale, e questo mi interessa molto. Anche se sto ancora terminando il montaggio di Un prophète, sento il bisogno di tornare a un progetto personale, che metta insieme elementi italiani e francesi, ma che sia calato nella realtà sociale francese».
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