Reduce dal successo teatrale de “Il fu Mattia Pascal”, rivisitato con la sua compagna Simonetta Solder, Giorgio Marchesi dal 29 marzo è su Sky e Now Tv con la serie “Hotel Portofino”. Attore di rango, nasce a Bergamo e si paga gli studi universitari con i lavori più disparati, dal cameriere all’elettricista (con scarsi risultati, ammette); suona come chitarrista nel gruppo rock, da lui fondato, Taverna Marchesi. Dopo il soggiorno londinese, fonda anche una compagnia teatrale, Il teatro sghembo.
Nel 2003 si trasferisce a Roma, continuando a studiare con insegnanti del calibro di Giancarlo Sepe e Valerio Binasco; arrivano così i primi ruoli, al cinema e in tv. Marchesi è sulle assi del palcoscenico dalla fine degli anni Novanta e davanti alla cinepresa, che si tratti di grande o piccolo schermo, da 20 anni. Ha visto cambiare il mestiere dell’attore, soprattutto con l’avvento delle grandi produzioni internazionali. Come membro dell’associazione U.N.I.T.A., oggi è impegnato affinché il settore dell’audiovisivo venga regolamentato.
U.N.I.T.A. lamenta che le grandi produzione estere vengono girate qui approfittando del tax credit, ma i nostri attori e le maestranze non sono tutelati. Sei in Hotel Portofino, serial britannico, qual è il tuo punto di vista in materia?
«La mancanza di un contratto per l’audiovisivo, come quella di un salario minimo, sono situazioni che favoriscono il far west attuale. Il rischio è lavorare per produzioni che vengono in Italia, investono, producono, ma non hanno paletti. Manca anche un accordo coi produttori nazionali. Alcune novità introdotte dalle piattaforme, sotto il profilo dell’utilizzo delle immagini, non sono regolamentate e ci privano delle tutele.
Per la mia collaborazione in “Hotel Portofino” ho firmato un contratto dettagliato, in cui erano chiari anche i giorni di lavorazione, così da poter prendere altri impegni. Da noi i piani di lavorazione non esistono più, per cui si resta bloccati tre mesi per cinque giorni di lavoro effettivo. Questa mancanza di certezze fa in modo che la vita di un attore non sia più nelle sue mani, ma in quelle della produzione».
Negli ultimi anni c’è stato il bisogno di assimilare le serialità al cinema, come se un film fosse più prestigioso. Un attore di cinema vale di più, mentre in una serie può recitare chiunque?
«Una volta nel nostro Paese si distinguevano gli attori cinematografici, teatrali e delle fiction, che rappresentavano il gradino più basso della categoria. Non credo che le nuove generazioni facciano questa distinzione, è un retaggio del passato, per cui essere un attore di cinema è più lusinghiero.
Il grande schermo, una volta, aveva una qualità migliore perché c’era più tempo per curare una scena: su un set cinematografico fai una o due scene al giorno, in una fiction sei o sette. C’è un’attenzione maggiore per la fotografia. La recitazione ne guadagna, perché hai più tempo per provare.
L’offerta televisiva si sta comunque modificando: in passato si guardava la tv facendo altro, ora, con le serie in streaming, il tempo lo si dedica solo alla visione. Sta cambiando il prodotto, speriamo che prima o poi si parli semplicemente di attori – e attrici – bravi e meno bravi, senza guardare il contesto in cui lavorano».
La sirenetta nera della Disney è stata criticata perché, in nome del politically correct, si stravolge la tradizione. Bridgerton ha spopolato nonostante il cast multietnico, poco credibile sul piano storico. Il pubblico, soprattutto quello delle nuove generazioni, è andato avanti, lasciando le diatribe sull’inclusione a media, social e sedi istituzionali?
«Penso rifletta la differenza tra pubblico giovane e meno giovane. L’estremizzazione del politically correct è un discorso delicato, in questo momento fortemente divisivo all’interno della società. È vero, però, che gli spettatori giovani non hanno grandi problemi sul piano dell’inclusione, sono molto più aperti sia dal punto di vista etnico che sessuale. Fino a poco tempo fa, un bacio gay su Rai1 faceva scandalo.
C’è da dire che reti come Rai1 sono obbligate a parlare a generazioni diverse, perciò realizzano prodotti più semplici, ma che permettono a una famiglia intera di vedere insieme la televisione; c’è uno scopo sociale, non banale, il rischio, come succede sempre più spesso, è che ognuno stia davanti al proprio device, a guardare un programma diverso. Così, al contrario, si crea l’occasione per vedere il famoso film per tutti, che magari al cinema non trovi, e può essere una serie, magari. Anche la serialità più tradizionale, ad ogni modo, non può rimanere impermeabile a cambiamenti sociali che sono sotto gli occhi di tutti».
Hai preso parte a tante produzioni nostrane, Rai e Mediaset, e straniere, come il citato Hotel Portofino o I Medici. La differenza sta nell’investimento, nelle tecnologie a disposizione, nelle sceneggiature…?
«Le serie inglesi o americane hanno grande successo intanto per un fattore linguistico: Hotel Portofino arriva in Australia come in Scandinavia. Una serie italiana, per essere venduta all’estero, deve portare qualcosa di peculiare, oppure rispecchiare l’immagine del Belpaese che ci si aspetta, sole, cibo, malavita. C’è poi un gap a livello di investimenti. La differenza, comunque, la fa la scrittura. Credo che in Italia, tra i giovani, ci sia un buon gruppo di attori e registi. Pure nelle maestranze abbiamo eccellenze notevoli, forse servirebbe più coraggio nella scrittura. A volte, però, il successo arriva dai social, con prodotti che riscuotono un successo inaspettato, come La casa di carta».
C’è anche una scelta di target. La Rai, ad esempio, punta a un target meno giovane e più conformista?
«Sicuramente, Rai2, ad esempio, cerca di intercettare un pubblico più giovane, il successo di Mare fuori è la prova di come anche una tv di stato possa arrivare a generazioni differenti. È il “film per tutti” di cui parlavamo».
Ci sono film che riescono a essere prodotti, ma non arrivano in sala perché manca la distribuzione. Il fatto di averla assicurata aiuta pellicole e serial per le piattaforme più del cinema in sala?
«Penso sia questo il problema dell’audiovisivo. Il cinema italiano sta producendo tantissimi film per soddisfare la crescente richiesta delle piattaforme, ma quelli che vanno in sala sono pochi, quelli che hanno successo ancora meno. C’è un costante ricambio di titoli, che arrivano velocemente e passano inosservati. Per rientrare degli investimenti, spesso le produzioni chiudono accordi con Netflix, Amazon e affini prima di iniziare a girare, per essere distribuiti».
Questo incide sulla libertà del prodotto? All’estero credi ci sia maggiore libertà?
«La libertà che c’era anni fa, quando uno poteva prodursi un film, metterlo in sala e vedere come andava, contribuiva a tenere alta la qualità. Gli addetti ai lavori mi raccontavano che, se la scena finale era sbagliata, sarebbe stata rigirata, con tutte le spese che ciò comportava. C’era sicuramente un rischio importante da parte dei produttori; ora è minore, ma lo è pure la libertà.
La libertà, se di questa si parla, va cercata nelle pellicole indipendenti, se si parla di coraggio, invece, siamo un po’ “lenti”, forse anche per un nostro problema culturale».
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