A prescindere dal brevetto reclamabile da Augé, tra gli operatori della meccanica umanistica dei nonluoghi c’è sicuramente David Cronenberg, drammaturgo dei nuclei industriali che, proprio nell’estetica funzional-brutalista della modernità , ha trovato il proprio teatro espressivo. A un’esplorazione fuori dalla sua poetica abituale, tra il 2000 di Spider e il 2014 di Maps to the stars, è seguito un redivivo richiamo per le isole di cemento subito affidato alle consuete matrici di riferimento. E se il Cosmopolis del 2012 (da DeLillo) inaugurava la rivalutazione di Robert Pattinson e appariva erroneamente un po’ in sordina – una specie di “minore” del grande regista – il titolo del 2022, Crimes of the Future, possedeva tutta la forza dirompente della celebrazione e, a oggi, rappresenta forse la sua allegoria più consuntiva, calata in un nonluogo ultra lesionato e decrepito.
La topografia e la fenomenologia dell’universo di Crimes sono quelle burroughsiane: distopie liriche con intrighi spionistici, visioni apocalittiche, mutazioni aliene, pericolosi giochi di potere e rivoluzionari tossicomani calati in geografie che somigliano al corpo umano. E forse proprio di questo si tratta. Con Crimes, dopo più di quattro lustri passati a fingersi un regista europeo, Cronenberg torna a fabbricare corpi mutanti, a relazionarsi con la fantascienza, con la biotecnologia, col software prestato agli orifizi (dall’Antenna Research di eXistenZ a Lifeformware il passo è breve), con l’arte performativa e con la sessualità , confezionando il suo film concettualmente più completo ed estremo, sintatticamente ostico quanto Naked Lunch (da Burroughs), figurativamente tabù quanto Crash (da Ballard). In più, però, ci sono due extra: il primo è che si tratta, come nelle sue opere più epocali (es. Videodrome), di scritture originali e non di trasposizioni; il secondo è che il titolo rimanda al suo esordio indipendente, un dittico realizzato tra il 1969 e il 1970 costituito da due opere intitolate rispettivamente Stereo e, appunto, Crimes of the Future.
Sebbene sia il regista che la critica ci tengano a precisare che non si tratti né di un remake né di un reboot, risulta comunque evidente per chiunque abbia visto (e possibilmente amato) il film del 1970, quanto siano presenti molti elementi del Crimes originale. Anzi, a dirla tutta, questa nuova installazione potrebbe rappresentare, inconsapevolmente o meno, un’estensione territoriale di quei concetti che erano già presenti e in nuce in quel mirabile pacchetto di cinema indipendente settantino. Anche lì, infatti, c’erano l’evoluzione, la mutazione, la provocazione socio-politica (tutte le donne della Terra si estinguevano a causa di un cosmetico distribuito da un dermatologo pazzo) e l’estesa sintesi architettonica. Qui poi c’è l’aperta citazione nel finale, i tumori creativi di Mortensen e il suo outfit ricalcati su almeno un paio di personaggi abbozzati già nel capolavoro del 1970, il richiamo cromatico del viola che ritorna a fare da perturbante e tutta la descrizione di una società allo sbando evolutivo con tanto di apparati di polizia addetti al mantenimento dell’ordine (e ci torna in mente di nuovo Burroughs con la sua “Polizia Nova”). Ma soprattutto, allora come oggi, c’è il béton brut stavolta antichizzato e ripescato in Grecia, non più in Canada, in un cambio di approdo che forse rappresenta il vero traguardo del percorso esplorativo 2000/2015 visto poc’anzi.
Dunque, l’esito di un viaggio costellato da vette e futuribilità , a tracciare un segno tra due punti distinti che si chiamano nello stesso modo: Crimes of the Future, aspettando l’uscita italiana di quello che si prospetta un nuovo monumento al nonluogo: The Shrouds (2024), ovviamente.
Gloria e vita alla nuova carne.
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