Ferzan Ozpetek è come un parrucchiere per signora in un grande salone collocato in un indistinto punto tra il dopoguerra e la crisi petrolifera del 1973. Lo era sin dai tempi di Hamam, ma nel frattempo la sua filmografia si è cristallizzata in direzione della confidenza piuttosto che della narrazione. Se vai da Ozpetek sei sicura di spendere parecchio, ma anche di avere un accurato trattamento fatto di sceneggiature piene di ritmo, scenate melodrammatiche, ammiccamenti ai miti d’oggi, primissimi piani delle grandi dive del passato e trattamento anti-age. Ecco, se vai a vedere Diamanti, avrai la summa di tutta la sua filmografia recente, quella slavina che parrebbe averlo trasportato dal paragone con Almodòvar a quello con Zeffirelli; entrambi appartenenti a una comunità gay ultra borghese, certo, ma se il nome del primo è legittimato da una patente d’autorialità indiscussa, quello del secondo risulta ancora impelagato nella solita bagarre su presunte superficialità estetizzanti. Poi ci sarebbe anche Visconti, ma lui lo citeremo tra un po’.
La trama in breve: Roma, seconda metà degli anni ’70. La prestigiosa sartoria Canova, specializzata in costumi per cinema e teatro, è gestita brillantemente dalle sorelle Alberta (Luisa Ranieri) e Gabriella (Jasmine Trinca) che – scontrosa la prima, tormentata e introversa la seconda – sono a capo di una squadra di abili sarte spesso oggetto delle loro intemperanze. All’alba di una grande e non specificata produzione, Alberta accetta la commissione di un abito di scena apparentemente irrealizzabile. Il lungo lavoro modificherà le relazioni tra tutti i membri dell’équipe, clienti e sorelle comprese.
La Sartoria Canova non esiste, è una gigantesca crasi che “dalla porta di servizio” ci racconta un brano di storia del nostro cinema. Similmente il Lorenzo Premio Oscar (Stefano Accorsi) contiene tutti i grandi cineasti di prestigio (qui forse il Visconti di Ludwig?). Allo stesso modo, il personaggio dell’esigentissima Bianca Vega (Vanessa Scalera) serve a rappresentare la figura-tipo del costumista (da Piero Tosi a Milena Canonero), agenti spesso dimenticati nella comune narrazione dei grandi successi da carpet. Ed è proprio il concetto di “rimosso” che abita anche nella celebrazione del mito socialista del lavoratore minuto, qui raccolto nei corpi e nei volti di donne del popolo – brave, bravissime – alle prese con vite impossibili, vite tormentate, vite indebitate, vite da autrici inconsapevoli, asservite al grande processo dello spettacolo (e talvolta anche ai mariti).
Il primo tempo di Diamanti è vivace, cede al grande trucco dello stilista Ferzan, cioè quello della colloquialità nel buon recitato. Il “suo” cast trascina in scena tutta la fiducia che esso nutre per il regista italo-turco e testimonia quanto si sia evidentemente divertito nel partecipare a questa grande pièce in cui gli uomini sono relegati volutamente ai margini di un’azione tutta al femminile. Il primo tempo scorre via come l’olio, anzi come la seta. Il ritmo continuo affida dialoghi vorticosi da screwball maccheronico a movimenti di macchina intramoenia. Il secondo tempo, invece, sa più di neorealismo rosa, con una Luisa Ranieri spesa in primissimi piani lucidi e lacrimanti che fanno venire in mente Yvonne Sanson (manca però Amedeo Nazzari) e trova respiro solo negli ammiccamenti sarcastici di Geppi Cucciari e Paola Minaccioni. Da segnalare anche l’ottima parodia della diva affidata a Carla Signoris e una fantastica Mara Venier nel ruolo della nonna in ciabatte.
In sostanza? Il film si gode. Sciorina un’ode alle donne senza trarle forzatamente fuori dall’alveo di attività considerate tradizionalmente femminili, senza cioè considerare quelle attività svilenti, anzi decretandole come straordinarie (oltre che necessarie nello specifico processo produttivo narrato dal film). L’arduo compito, poi, è affidato a un cast di abilissime interpreti, capaci di sciogliersi in questo tentativo tanto oleografico quanto estremamente vitale. Il pezzo di storia intercettato è quello dell’ormai mitico capitolo anni ’70 del grande brossurato pop della nostra piccola Italia, a base di pantaloni a zampa, nostalgia e 127.
Senza nomi reali, il racconto sublima in una favola che parla di drammi intimi e ricorre agli stereotipi del melodramma ma rimane agile nonostante tutto. Vera zavorra, a nostro avviso, sono solo gli inserti meta-cinematografici del regista, sequenze che tuttavia hanno due meriti: quello di raccontarci il succitato agio tra Ferzan e il suo cast e quello di giustificare la presenza della grande assente, Elena Sofia Ricci. Da vedere per godere di un film onesto che ha ancora fiducia nel racconto, nei volti e nelle figure, arnesi oggi spesso dimenticati in un cinema italiano che a volte si ostina a scimmiottare un’industria che non gli appartiene. Grazie a tutte voi, sarte dell’acting.
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