Per i Cahiers du cinéma è fra i migliori film del 2023. Ormai alla ribalta nel circuito dei festival europei, Radu Jude – vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2021, premio speciale della giuria a Locarno nel 2023 – si muove con naturalezza tra fiction e non fiction, applicando la versatilità del suo stile sia a lungometraggi dalla notevole durata, sia a corti e mediometraggi. Da sempre molto prolifico, compone la gran parte dei suoi lavori di una molteplicità variegata di fonti audiovisive grazie a inserti found footage, squarci sperimentali e sequenze in pellicola e in digitale, fino a includere nei film segmenti girati con lo smartphone. Il centro della riflessione dell’opera provocatoria del regista rumeno ruota spesso intorno a una componente autoriflessiva molto spiccata. Non si contano i riferimenti alti e bassi, dalla cultura pop al campo delle discipline umanistiche tradizionali, in un’enciclopedica dimostrazione di sapere – eclettico quanto aneddotico – sui più svariati argomenti. L’intento che lo muove è spesso polemico e moraleggiante, l’effetto che provoca non può che destabilizzare. Do Not Expect Too Much from the End of the World, presente all’ultima edizione del Trieste Film Festival, ancora attende una distribuzione ufficiale nelle sale italiane.
Angela Raducanu, la protagonista, è una giovane assistente di produzione che lavora troppo e viene pagata poco. Costretta ad affrontare il traffico di una caoticissima Bucarest, attraversa la città da parte a parte per filmare i provini per uno spot commissionato da una multinazionale austriaca all’agenzia di videomaking di cui fa parte. Lo scopo è quello di sensibilizzare gli impiegati sul tema degli infortuni sul lavoro, ma allo stesso tempo è una forma di washing con cui l’azienda tenta di diminuire le proprie responsabilità sugli incidenti tramite una furba operazione di prevenzione. L’attore principale deve essere selezionato tra i veri dipendenti, realmente infortunati, della filiale rumena a cui – dietro pagamento – è chiesto di dichiarare che il danno subito è da imputare alla propria mancanza d’attenzione e alla scelta di non indossare l’attrezzatura adeguata. La scelta ricadrà fatalmente su Ovidiu, bloccato su una sedia a rotelle e già impegnato in una causa legale contro la ditta.
Angela, che seguiamo nel corso di una frenetica giornata dal mattino fino alla notte, condivide il nome con il personaggio di un film rumeno dei primi anni Ottanta, Angela merge mai departe (letteralmente “Angela passa oltre”), evocato a più riprese tramite il riuso e la rielaborazione di intere scene che operano come contrappunto sarcastico alle situazioni della pellicola di Jude. Il ponte creato da questo confronto apre a una serie di letture comparative. L’Angela del film del 1981 è una tassista dalla forte personalità che, giorno dopo giorno, nella Romania di Ceaușescu, viaggia in macchina scambiando chiacchiere confidenziali con i clienti. Come lei, l’Angela del 2023 trascorre gran parte del suo tempo al volante, fronteggia strada e automobilisti ed è una persona dal carattere pugnace. Se per molti versi l’accostamento opera sulle affinità, le differenze emergono in modo ancora più evidente e producono un ribaltamento spiazzante. Il contesto sociale è del tutto trasfigurato, dai rapporti di genere al panorama politico. Le immagini di questo melodramma leggero, dalle musiche allegre e i toni sognanti, che dipinge la Romania comunista come un paese dalla grande dignità che si affaccia pieno di speranze ai tempi moderni cozzano vistosamente con il caos del realismo capitalista e la disillusione da commedia nera con cui il regista rappresenta il mondo contemporaneo. In questo continuo gioco di specchi, ritroviamo l’attrice Dorina Lazar, protagonista di Angela merge mai departe, in un ruolo secondario in cui presta il volto alla madre di Ovidiu.
Se nella prima parte assistiamo alle peripezie di Angela, nella seconda un’inquadratura fissa e continuativa cattura per circa quaranta minuti tutti ciak necessari a girare lo spot. Intertestualità e meta-riflessione sul cinema si uniscono, quindi, in un film volutamente sbilanciato e solo all’apparenza disordinato. L’altro filo conduttore è rappresentato dal ripetersi ossessivo di scene in cui la protagonista si riprende col telefono mentre interpreta un suo alter ego di finzione a cui ha dedicato un profilo TikTok. Bobani – sotto le cui vesti Angela recita attraverso l’applicazione di un filtro che le modifica i lineamenti trasformandola in un uomo calvo dalle folte sopracciglia – è un concentrato di razzismo, misoginia e ideologie nazionaliste, ossessionato dal denaro e dal lusso, pronto a manifestare le sue opinioni qualunquiste e violente su qualsiasi tema d’attualità. Secondo la ragazza, questa forma di esasperata performatività social – oltre a una valvola di sfogo – rappresenta un’imitazione caricaturale di un atteggiamento molto diffuso in rete, da lei volutamente portato al limite estremo.
È un ulteriore specchio, un’ennesima maschera che Do Not Expect Too Much from the End of the World indossa per raccontare un apparato politico, economico e culturale, smontando la realtà con un tentativo di decostruzione parodica di molte delle tendenze del contemporaneo, dal machismo dei guru online alla possibilità di produrre una controparte trash e post-ironica di qualsiasi evento. Jude racconta tutto ciò con uno stile giocoso, dalla vera sensibilità B-movie (rivelatore in questo senso il cameo del regista di culto Uwe Boll), girando con un bianco e nero iper-saturo in pellicola Super16 e adottando il digitale e i colori solo per le sequenze in cui la finzione scenica presuppone lo sguardo meccanico di un dispositivo di ripresa (i video di Bobani e l’ultimo long-take). Molti sono gli elementi che testimoniano un sincero movimento di ritorno all’amatorialità che il regista stesso si è auspicato in più di un’occasione: su tutti, il gusto avanguardista dei titoli di testa e di coda, scritti su risme di fogli di carta, l’uso di inquadrature asimmetriche e un montaggio discontinuo che si discosta dall’immaginario visuale a cui l’accademismo da scuola di cinema e la professionalizzazione a tutti i costi del mainstream ci hanno abituato negli ultimi anni.
Condensare in una rappresentazione a suo modo rigorosa, impiegando un registro grottesco, un’analisi di cause ed effetti e una forte (auto)critica del proprio paese è un progetto ambizioso. Banalità e complessità, serio e faceto inevitabilmente si mescolano. Il risultato è un caustico commento sulla società dello spettacolo che propone un punto di vista interno sulle storture del cinema industriale e della cultura aziendalistica in generale. Poco importa se il meccanismo ogni tanto si inceppa a causa del torrenziale citazionismo. Sottoporsi a un tale tour de force, che sfiora le tre ore e chiama in causa contemporaneamente tanto il cinema popolare, quanto la riflessione sulle icone di Godard, può sfiancare: ma è un’esperienza che merita la visione. Fin dal titolo che suggerisce un quadro catastrofico, si sente palpabile l’urgenza di rivelare che lo scenario apocalittico, accettato con un certo understatement, non si trova in un futuro incerto e astratto, ma nel presente che è un inferno quotidiano di contraddizioni, volgarità e ingiustizie.
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