Dogtooth è il terzo lungometraggio realizzato nel 2009 dal regista greco Georgios Lanthimos, reduce dal successo mondiale de La Favorita, candidato all’Oscar 2020. A undici anni esatti dalla sua premiazione nella sezione Un certain regard al festival di Cannes 2010, e candidato all’Oscar come film straniero l’anno successivo, soltanto adesso i distributori italiani si sono sentiti pronti a farlo uscire alla fine di agosto, tra la canicola estiva e l’incertezza del Covid. Ma questo ritardo è stato in qualche modo provvidenziale per avviare nuove riflessioni sul significato del film in un’epoca così particolare, che suggerisce inattese e sorprendenti letture di una delle pellicole più interessanti del cinema contemporaneo.
Due parole sulla trama, apparentemente semplice ma in realtà assai complessa e sfaccettata: una coppia di borghesi benestanti di mezza età vive in una villa alla periferia di una qualunque città greca, protetta da siepi e cancellate che impediscono alcun contatto con l’esterno.
I loro tre figli adolescenti, che sembrano usciti da film come Funny Games (2007) di Michael Haneke o dagli scatti fotografici di Rinete Dijkstra, passano il tempo ad inventarsi giochi di sopravvivenza tra la piscina, una pedana per esercizi ginnici al centro del giardino e le asettiche stanze della villa, immortalata da scene che sembrano ispirate dagli scatti di Wolfgang Tillmans o Elina Brotherus, dove si muovono i tre ragazzi, del tutto privi di calore affettivo mediterraneo ma dotati di un algido carattere nordico. Rinchiusi in una gabbia dorata, da dove è vietato uscire in quanto circondata da animali crudeli e pericolosi come i gatti, i tre giovani utilizzano tra di loro un linguaggio paradossale e degno delle migliori commedie surrealiste, imposto dai genitori, dove gli zombie sono delicati fiorellini gialli e il mare una comoda poltrona: una sera a cena apprendono dal padre che potranno avventurarsi fuori di casa soltanto quando avranno perduto il loro dente canino. L’unica persona esterna ammessa all’interno della casa è Cristina, una giovane addetta alla sicurezza che lavora nell’azienda del padre, che deve provvedere, a pagamento, ai bisogni sessuali del figlio, espletati attraverso amplessi che definire meccanici è un eufemismo. Sarà proprio lei ad inserire nel rigido e indistruttibile controllo paterno un elemento che porterà la figlia maggiorenne ad evadere, seppur con conseguenze ignote, dalla dimora familiare.
Disturbante e paradossale fino a sfiorare la comicità, a dieci anni di distanza Dogtooth viene letto e interpretato oggi in maniera diversa dalla sua uscita sugli schermi nel 2009, quando Internet era diffuso quasi soltanto negli uffici (in una scena si vede un computer dell’epoca con il logo di Windows che galleggia in un’oscurità assoluta) ed era ancora possibile immaginare un contesto familiare non ancora dominato dall’onnipresente tirannia degli smartphone.
I più giovani stenteranno a crederlo, ma nel 2009 la tecnologia era ben lontana da riempire ogni singolo attimo della nostra attenzione, seppur in un contesto disturbato come quello mostrato dal film, dove i tre adolescenti sembrano essere usciti dagli esperimenti di Josef Mengele sulla razza ariana, e non a caso. Inoltre, in epoca post-Covid19, il film di Lanthimos appare in una luce profetica, innestando riflessioni legate all’esercizio del controllo come strategia di potere, non attraverso l’assenza totale di informazioni bensì come monopolio e gestione dei Big Data.
Il regista greco mostra un microcosmo domestico dove il padre di famiglia, con la scusa di proteggere moglie e figli dai pericoli dell’ambiente esterno, sconosciuto e minaccioso, esercita un controllo totale delle loro menti, dando vita ad un immaginario distorto e morboso, del tutto privo di affettività.
Instillando nel proprio nucleo familiare una sorta di paura totale e assoluta verso tutto ciò che è diverso e quindi pericoloso, si impadronisce delle loro menti e le rende malate, disfunzionali ed inadatte alla vita reale. In nome dell’autodifesa imposta dall’autorità, sia essa di origine familiare che statale, siamo disposti davvero a rinunciare a tutto, compresa la nostra libertà? Ecco la domanda suggerita dal film: in un periodo dove siamo stati tutti costretti all’autosegregazione e ad un isolamento imposto dall’alto per ragioni sanitarie questa tematica assume risvolti davvero inquietanti. Per questo Dogtooth appare come un film scomodo ma denso di spunti per interrogarsi su questioni che appaiono cruciali in un’epoca dove la manipolazione dei dati personali di milioni di utenti da parte di società come Facebook o Amazon può provocare conseguenze inimmaginabili nella vita politica, economica e sociale di intere nazioni.
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