È ormai metà novembre e il cinescopio del cinema La Compagnia di Firenze è rimasto neutro, incolore. Via Cavour non godrà della “luminanza” della solita folla che si attarda durante questo periodo dell’anno. Sappiamo tutti il perché. Ma sappiamo anche che lo schermo ha natura ambivalente nel significato (scherma, riflette, diffonde, trasmette) quanto molteplice nella sua composizione, di tela, di stoffa, catodica, cristallina, pixelata. Così, il flusso di immagini suoni volti opere e storie del prestigioso Festival di Cinema e arte contemporanea Lo Schermo dell’Arte non si è fermato nemmeno in questo difficilissimo 2020.
Dopo l’esperienza di Artist’s Film Italia Recovery Found di aprile a sostegno della videoarte italiana – un progetto ideato e curato da Leonardo Bigazzi -, il team dello Schermo dell’Arte, coordinato dalla direttrice Silvia Lucchesi, ha messo in piedi la piattaforma di streaming on demand “Più Compagnia” in collaborazione con MyMovies.it per la fruizione di più di 40 film tra cinema d’artista, documentari e cortometraggi. Un programma come sempre ricchissimo di novità ed esperienze estremamente diverse, per nulla a disagio su una piattaforma online, ormai a torto o a ragione il tool più diffuso di condivisione non solo di contenuti culturali ma anche di confronto sociale e relazionale.
Ed è sempre lo screen, lo schermo, a essere protagonista della nostra workstation (pc, smart tv, cellulare, tablet) in modo sempre più decisivo. Il tempo di fruizione della piattaforma streaming dello Schermo dell’Arte è di poco più di dieci giorni (dal 10 al 22 novembre 2020), un intervallo temporale in cui diviene possibile una visione originale, seriale, ripetuta, ora in stile binge watching con volti opere panorami da screenare, condividere e suggerire ad altri binge watchers o magari concedendosi lunghe pause, di assorbimento o di riflessione, che da sempre l’arte ci richiede. Pratiche ovviamente molto diverse rispetto alla visione più sensuale, rituale, che suscita una proiezione in un cinema tradizionale ma che, ormai, fanno parte delle nostro quotidiano.
Anzi alcuni titoli, per ritmo, tematiche e taglio narrativo sembrano perfettamente inseribili su una qualsiasi piattaforma alla Netflix, Amazon, Chili. Come nel caso dell’elegante documentario di Musquiqui Chihying, The Sculpture (Taiwan, 2020, 28’) in cui il cineasta asiatico ricompone, nello stile di una classica detection in bianco e nero, la figura di Xie Yanshen, collezionista e direttore del Museo internazionale di arte africana di Lomé (Togo) attraverso un complesso puzzle di foto e di storie che si intrecciano tra la Cina, l’Africa e l’Occidente.
Oppure Made you Look. A True Story About Fake Art, lungometraggio di Barry Avrich (Canada, 2020, 96’) a metà tra il thiller legale e l’heist movie che ti tiene incollato per quasi due ore al divano (o alla chiar gaming) tra confessioni, colpi di scena, giurie ed esperti, mister X e Mister Y, in attesa dell’arresto o della fuga dei geni della truffa, la dealer Glafira Rosales e del suo complice, il falsario cinese Pei-Shen Qian. O come potremo ascrivere al genere road-movie il viaggio metafisico e autostradale, storico e di formazione dell’artista Rudolf Herz che in Szeemann and Lenin Crossing the Alps (Germania, 2019, 18’46’’) tra guard-rail e la famosa lepre di Vladimir, tra un viadotto ticinese e il “circuito chiuso di vita senza morte” di Duchamp, tra i fallimenti di Malevič e le anomalie magnetiche del Monte Ascona (ribattezzato Monte Verità) in Svizzera conduce un enorme busto del rivoluzionario russo a goderne la spettacolare vista per l’ ultima volta dentro un parcheggio.
Ma accade anche qualcosa di stranamente solito, familiare, durante la visione di queste prime opere in programma. Qualcosa che sembrava perduto e che ci riporta a immagini non afflitte da quella percezione post-pandemica, in cui la prossemica dei corpi, delle sensazioni come delle emozioni, è sempre colpevole e inopportuna, in ogni caso e in ogni luogo. Qui non è il potere del cinema ma solo e solamente il potere dell’arte.
Osservare in Hans Hartung, la fureur de peindre, di Romain Goupil (Francia, 2019, 52’), l’artista, ormai vecchio e solitario, davanti a una tela in bianco e nero, con gli occhiali scuri, i capelli pettinati all’indietro e il desiderio di «esprimere se stesso attraverso delle linee». Oppure il contadino asiatico di Becoming Alluvium, di Thao Nguyen Phan (Spagna, Vietnam, 2019, 16’40’’), che provvisto di vanga e del caratteristico copricapo di foglie, il nón lá, nello scenario paradisiaco del Delta del Mekong, dissoda qualcosa in cima a un collina ricolma di spazzatura.
Anche immaginare un gioco a distanza tra i caldi spazi metropolitani invasi dai celebri ritratti giganti del writer francese JR, in #JR, di Serge July, Daniel Ablin (Francia, 2018, 52’, e le glaciali analisi/valutazioni di 654 opere d’arte da parte di sette diverse Intelligenze Artificiali raccontate dalla voce artificiale di Lisa (proveniente dalla banca del suono IBM – Watson Text to Speech) e dalle altrettanto calcolate riprese di Bruno Moreschi e Gabriel Pereira, in Recoding Art (Brasile, 2019, 15’).
Ebbene, questo net flux che ci attraversa in queste ore ha la forza di creare in noi una sospensione profonda, un ricongiungimento non tanto con il mondo di “prima” quanto con ciò che è sempre alla radice di ogni cosa: l’immagine, il suono, la parola. Questo è lo Schermo dell’Arte 2020.
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