Prosegue il nostro racconto di incontri con registi, in occasione della Viennale – International Film Festival della capitale austriaca (qui l’intervista al regista Andrea Pallaoro), giunta alla sua sessantesima edizione. In un primo pomeriggio nuvoloso di fine ottobre, due registi, uno friulano (Alessandro Comodin) e l’altro messicano (Oscarito Sanchez), cercano un modo per fare uscire il sole. Lo fanno, più che con un’intervista su “Gigi la legge”, ultima uscita di Comodin, con un dialogo, leggero e intenso allo stesso tempo. E grazie al potere che solo risa spontanee e sincere possiedono nel guardare dentro se stessi, il sole finisce veramente per far capolino in quella camera dell’Hotel InterContinental.
Bisogna che i nostri lettori sappiano. Alessandro conosce bene la realtà dei piccoli paesi del Nord-Est italiano: tutti i suoi film sono girati tra Veneto e Friuli. “Gigi la legge” è i luoghi che il regista ha vissuto e scelto: San Michele al Tagliamento, qualche strada provinciale, il giardino della sua infanzia. Da Parigi alla provincia di Venezia. Qui Alessandro ritorna – come aveva già fatto per il pluripremiato “L’estate di Giacomo” – per seguire con lo sguardo della sua telecamera un attore d’eccezione: il poliziotto, che a bordo della sua volante della polizia locale guida noi spettatori per le strade bordate da piantagioni di mais e betulle, è suo zio.
Alessandro è, come Gigi, un tipo molto allegro: autoironico, informale, sempre col sorriso in faccia. Se lo incontri per strada, non pensi che sia un regista. Come, guardandolo di sfuggita, tra un passaggio a livello e una strada secondaria, non si direbbe che Gigi sia un vero attore: eppure, entrambi lo sono. Tuttavia, della vita. Attraverso il racconto di una realtà che, lasciandola andare, mostra il suo intrinseco carattere di magia, “Gigi la legge” è un inno allo straordinario che si cela nell’ordinaria esistenza di tante persone. Che i lettori, adesso, abbiano l’occasione di indossare i filtri di cui vestivano i loro occhi di bambini: abbandonando qualsiasi pregiudizio o preconcetto, scopriranno il mistero che si cela – lontano dei riflettori – in un piccolo paese di provincia, metafora universale.
È un piacere avere occasione di scambiare qualche battuta con te, Alessandro, su “Gigi la legge”. Dopo averlo visto, mi sono confrontato un po’ con il parere che i critici stanno esprimendo su questo film: lo definiresti un racconto surrealista?
«No. Forse, nella percezione dello spettatore può apparire surreale. Vorrei che approfondissimo meglio questo concetto. Così, faccio io una domanda a te: a cosa ti riferisci quando usi il termine “surrealista”?».
Al giardino, uno degli ambienti principali del film: a volte, appare come una giungla.
«Quello che ho scoperto un po’ con i miei film, è che – scegliendo le inquadrature giuste, la posizione giusta, senza usare grandi artifici – la realtà grezza, piano piano, da sola, nell’accumulazione, si trasfigura. Credo che a manifestarsi sia un’operazione abbastanza magica. In effetti, è come se la realtà diventasse surreale. Tuttavia, ciò non è espressione di una mia volontà: non la impongo alla realtà. È la realtà stessa che mi porta verso questa dimensione, credo. Io la lascio andare: un po’ come gli alberi di Gigi. Lui li lascia, non li taglia. E questi alberi, piano piano, per accumulazione, assumono un carattere abbastanza magico».
Eh sì: lui dice che, diventando secche, le foglie cadranno da sole.
«(Ride) In realtà, stando ad osservare – è questo quello che faccio – divengo consapevole della grande ricchezza di cui sono in possesso: quella di non imporre alla realtà la mia visione, ma di lavorare la realtà, e lasciarmi anche trasportare da lei. Questo è il mio grande privilegio».
A interpretare Gigi è tuo zio: raccontaci com’è andata. Perché questa scelta?
«Perché sono un po’ come lui! Scherzi a parte: in realtà, ci sono molte ragioni. Innanzitutto, gli voglio molto bene, ed ho sempre trovato che fosse una persona straordinaria: non in un senso di genialità, ma proprio per la sua deviazione dall’ordinarietà, qualcosa che ho sempre saputo. Poi, il fatto che sia un vero personaggio pubblico lo rende un attore naturale: ciò non vuol dire che debba essere per forza un buon attore per il cinema, ma è un attore nella vita, cosa che può essere anche un po’ fastidiosa, a volte. Nell’esistenza di tutti i giorni, è come se giocasse continuamente con il suo corpo, con le parole: coltiva in modo molto ossessivo il suo linguaggio, fatto di dialetto – di diversi dialetti – e di italiano. Spesso, imita persone, modi di dire: è come se prendesse la realtà e la reinterpretasse a modo suo. Trovo che sia interessante, soprattutto per la sua completa decontestualizzazione rispetto a quello che la gente si aspetta, perché è un poliziotto per davvero!».
Possiamo dire che Gigi sia un poliziotto “poetico”, allora?
«(Ride) Sì, in realtà, è come non ce lo si aspetta: ha il trattore, le galline. È un po’artista, dandy – a modo suo –, però in un contesto del tutto rurale e fatto di gente semplice. Diciamoci la verità: anche il contesto sociale in quel paese lì – che è il mio – lo definirei un po’ mediocre».
Sì, lo comprendo. A questo proposito, nel film c’è un punto meraviglioso: l’assenza della tecnologia.
«Innanzitutto, credo che ci sia un fatto abbastanza chiaro: si percepisce che ciò che sto facendo non sia una mera riproduzione di quello che esiste, ma un film, per davvero. Con i miei mezzi, col mio stile, però lo sto facendo bene: controllo tutti i dettagli. Nel caso di ciò che dici: se non c’è la necessità di avere la tecnologia, non vedo perché avercela! Se, ad esempio, non deve chiamare qualcuno al telefono, perché Gigi dovrebbe tirarlo fuori? Se non c’è la necessità della storia, non occorre. Non ho tolto granché: è solo che non mi serviva, ed è per questo che lo smartphone, o il semplice telefono, non ci sono».
Personalmente, lo trovo fantastico: perché delle chiamate, nel film, ci sono. Solo che avvengono tramite la radio, attraverso cui a volte Gigi si mette in comunicazione con la centrale, in particolare con una nuova collega, Paola. Questo contatto con la voce, fino a quasi la fine del film, fa nascere spontaneo il dubbio. Esiste, Paola? O non esiste?
«Sì, è semplice. In realtà, tutto il film è molto semplice. Gioco con una grammatica cinematografica delle più basiche: campo, controcampo; a volte c’è, a volte no; non sei mai sicuro che il controcampo sia quello del campo che hai appena visto. Mi diverto, in qualche modo, ad usare una grammatica semplice per dare anche allo spettatore un attimo di libertà, in qualche modo. Non gli impongo di guardare, e di dire: «ah, guarda: questo è il suo sguardo soggettivo!». Lascio un fuoricampo enorme all’interno del quale, se vuole, lo spettatore comincia a percepire un po’ meglio la realtà. È un po’ un’operazione, un gesto per recuperare lo sguardo, l’ascolto».
A proposito di camera: il racconto è ambientato quasi sempre dentro la macchina. La camera ci passa gran parte del tempo, lì dentro. All’interno di questa macchina viaggia tutta la storia del paesino, di Gigi. Come hai creato tutta questa costellazione? L’hai vissuta? Ha un’origine autobiografica?
«Di sicuro, anche perché ho l’impressione di non avere un’immaginazione sconfinata. Ecco, quel poco per cui ho il privilegio di fare è filmare i posti e le persone che ho deciso io di raccontare: è solo questo che posso portare avanti. Il mio modo di lavorare è abbastanza artigianale, in confronto al cinema italiano ordinario, generale. Credo, arrivato ad oggi, di aver trovato una buona pista per un metodo che possa dirsi mio, personale. Quindi: una troupe piccola, dove ogni elemento – nel caso di “Gigi la legge”, eravamo in dieci – è lì, ed è scelto, prima di tutto, umanamente (insomma, non sono richieste grandi abilità, se non una grande sensibilità ed uno stare al mondo giusto).
Anche il casting è stato fatto in un modo molto personale: cioè, non facendolo come di consueto si fa. Un po’ come quando cerchi gli ingredienti per cucinare un piatto, abbiamo cercato, all’interno di una realtà circoscritta, un paio di posti, questa stradina che arriva, e ci siamo messi lì con questo mio amico assistente, e abbiamo detto: «bene, questa è la storia».
È un po’ una collezione di situazioni che io volevo per il film, con un inizio, uno sviluppo e una fine. E quindi anche lì, bon, abbiamo scelto le persone giuste, e poi siamo giunti alle riprese. L’unica cosa che sapevo era più o meno come filmavo. O, meglio: una sola camera, e sapere dove metterla. Sapevo che a Gigi dava fastidio se posizionavo la camera in un determinato modo, e se la tenevo io. Per la prima volta, a differenza dei miei altri film, non ho tenuto sempre io la camera. Sapevo che con Gigi dovevo stare lontano: ho cambiato le ottiche, ne ho messe di molto più lunghe e in macchina sapevo che bisognava che lui guidasse per davvero e che la camera dovesse essere sistemata lateralmente, perché gli dava fastidio. Questo, per quanto riguarda la posizione.
Poi, c’è il ritmo delle riprese: la maggior parte delle inquadrature – sono molto poche, nel film; in gran numero, si tratta di piani lunghi, o piani sequenza – sono fatte una sola volta. Un ciak, e ciao: si passa alla prossima. Tranne, naturalmente, gli snodi “finzionali”: ad esempio, quando all’inizio trovano il corpo di questa donna, ci abbiamo messo una settimana per trovare l’inquadratura che, in apparenza, può sembrare semplicissima. Poi, la questione dell’inseguimento di Tommaso, che abbiamo fatto due o tre volte.
Però, per il resto, direi che il 60% del film è fatto di inquadrature che esistono una volta sola. Cosa succede? Al montaggio, ti ritrovi poi con un materiale che funziona dal punto di vista dei raccordi, che, però, non funziona dal punto di vista della storia, perché quello che dici nel campo non è per forza quello che poi c’è nel controcampo. Quindi, lavori con quello che hai».
Quest’ultima cosa, la si percepisce. A volte, ci sono delle scene che ti fanno pensare che si tratti di una commedia e, dopo, ti trovi nel bel mezzo di un dramma.
«E ciò è dato dal fatto che posso contare solo su un’inquadratura, nel senso che nel montaggio sono vincolato da tante questioni relative alla storia, ai raccordi; tuttavia, allo stesso tempo, ho un’enorme libertà: posso lavorare solo con quelle cose lì».
Ti senti cambiato nel passaggio da “L’estate di Giacomo” a “Gigi la legge”? Avverti un’evoluzione?
«Sì, ovviamente. Soprattutto, adesso posso dire che è questo il mio lavoro. All’epoca de “L’estate di Giacomo” non ne ero del tutto consapevole, non ne ero sicuro. È un lavoro difficile: ma ogni film serve ad imparare qualcosa – di me e del mio mestiere – per andare avanti. Quindi, è una crescita, forse anche una crescita per tornare indietro, a volte! (Ride) Però, quello che desidero è saper filmare, oppure cercare di filmare con uno sguardo di bambino, che è il fattore più importante per me nel cinema: più bambino sei, più hai meno pregiudizi, preconcetti, artifici imposti dalla cultura, dalla televisione, dal cinema che guardi, più sei quello che è il tuo sguardo. Per me, è questo quello che cerco nei film quando vado a vederli. Vedi, anche la ricerca è un qualcosa che vado piano piano precisando».
Parliamo di musica. Nel film, inserisci solo due brani: Sono un pirata, sono un signore di Julio Iglesias e Amore disperato di Nada.
«La prima, quella di Julio Iglesias, è venuta fuori durante le riprese: Gigi la cantava con uno dei suoi colleghi. Per esempio, lì ho continuato a farla cantare sia sul campo che sul controcampo, perché mi son detto: «è possibile che la monterò». Il mio montatore, João Nicolau, mi dice: «dai, la canzone è bella; e poi, ne abbiamo bisogno!». Sulle prime, io non ero molto d’accordo, perché ho un po’ un problema con le canzoni “vintage”: però, in effetti, le parole sono molto giuste e corrispondono al personaggio che Gigi stesso recita nella vita. È un po’ come se fosse l’interpretazione di sé stesso. Sta bene all’interno di questa interpretazione: non è sufficiente, perché comunque ci sono altri lati di lui, anche più contraddittori e oscuri, ma è una canzone importante, nelle parole. E, dall’altro lato, c’è proprio una questione di necessità, nel momento del film, di poter passare al giardino. Con questa canzone, trovo che il passaggio avvenga in modo abbastanza elegante. È anche un po’ generoso nei confronti dello spettatore, perché, se non l’avessi messa, sarebbe stato un film molto più “dogmatico”. L’altra canzone, invece, l’ho scelta io».
Il finale è forse l’unica scena dove tu entri dentro il personaggio di Gigi. A prescindere dal giardino, dalla macchina, dai contatti tramite la radio, Gigi racconta qualcosa che l’ha colpito, che gli ha fatto male. Perché fai questa scelta, alla fine?
«Quelle a cui fai riferimento sono le classiche inquadrature che in un documentario normale vedi nel primo minuto (ride). Per me, tutto il film era in qualche modo un viaggio, dove Gigi portava me – e quindi tutti gli altri spettatori – in giro per il paese; però, allo stesso, ero tempo un viaggio che io ho fatto fare a Gigi attraverso dei momenti della sua vita che sono stati duri. Sono delle situazioni della vita che non sono per forza straordinarie: succede anche abbastanza spesso quello che è capitato a lui. Però, credo che quella scena, quell’inquadratura lì sia importante non solo per ciò che racconta, ma per come la racconta e per tutto quello che è successo prima. Tutto il film per arrivare lì: tutto il film per fare due chilometri per arrivare all’ospedale psichiatrico. Quello per cui faccio i film, alla fine, è anche cercare di mostrare quanto straordinaria possa essere la vita ordinaria di tante persone. Quindi, anche le piccole cose, i piccoli traumi sono vertiginosi, enormi».
“Gigi la legge” racconta la storia di un paesino, la storia di un poliziotto: è la tua storia?
«Sì, probabilmente. Anzi, certo. Questo è un grande privilegio del mio mestiere, che sto scoprendo con piacere: un po’ croce e delizia. Nel senso che fare dei film – o anche guardarli – è un grande modo di imparare, per me. Quindi, se faccio un film, entro nel personaggio e vivo anche io la storia. Nel caso di “Gigi la legge”, questo è particolarmente vero, perché si tratta di un paese che è anche mio, del mio giardino, di mio zio. Dicevamo: assomiglio tanto a mio zio! (Ride) C’è qualcosa, all’interno di questa famiglia, di cui non ho voluto e non voglio parlare direttamente, di forte, che neanche io so bene da dove venga e che cosa sia: è misterioso. Se ci pensi, anche la gente della mia famiglia non sa bene quale sia il mio mestiere, cosa faccio. Però sì, mi sento molto Gigi, e lavorando nel film credo che tra di noi si sia liberato qualcosa di estremamente bello. Anche la vita in paese è difficile: tutti ti guardano, tutti sanno, c’è un controllo molto grande, e spesso ti vergoni, provi sensi di colpa, devi cercare di smarcarti. Ammetto che è stato bello fare il film insieme a lui, perché in questo gioco di specchi è come se avessimo imparato un pochino di più a dire: «va bene, siamo fatti così; andiamo avanti!». Credo sia una cosa che tutti dobbiamo fare nella vita».
Sì. A me, tutta questa storia ha colpito perché vengo da una situazione molto simile: ho vissuto per tanti anni in un paesino dove non succedeva niente, tranne uno sporadico assassinio che, naturalmente, coinvolgeva tutto il paese. Però, trovo che il tuo sia il racconto di un paese che, alla fine, parla di una storia universale.
«Ricorda molto Tolstoj questa cosa che stai dicendo: «più sei vicino al tuo paesino, più sei universale». Sì, qui la camera – più che una telecamera – è un microscopio!».
Un’ultima domanda per te, che oramai è di rito con tutti i registi che incontro: di che colore è la tua vita?
«Di che colore? Beh, credo non ne abbia uno solo. Sì, ne ha diversi. Direi, comunque, che è un colore vivo, anche se non so quale. Siamo, forse, sul giallo. Prima ero verde, azzurro: adesso, sono passato al giallo, e con grande felicità. Non è assolutamente né nero, né grigio, né bianco. È bello, è un bel colore: di questo, sì, ne sono sicuro».
Il filo che si snoda raccontando motivi, atmosfere, ricordi che stanno alla base di Gigi la legge può forse, in definitiva, mostrarci una chiara trama di spontaneità. In un mondo in cui cerchiamo costantemente di rappresentare le nostre esistenze come eccezionali, invidiabili, uniche, da imitare, Alessandro Comodin – con il suo modo di fare, di parlare e di guardare diretto, originario, intriso di una lingua che sin da bambino gli rimbalza fra le orecchie e la bocca – ci invita a ricercare la bellezza nella semplicità delle nostre vite ordinarie che, se lasciamo con pazienza e misura fermentare, mostreranno tutto il loro carattere straordinario: un tono frizzante, una tinta di giallo, abbozzato. Come un fresco calice di vino del Nord-Est.
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