Prosegue la rubrica di exibart “Il gioco delle coppie”, a cura di Arianna Rosica. La rubrica presenta artisti che lavorano in coppia (uniti da legami affettivi, amicali o familiari) per capire cosa significhi essere in due ma risultare una singola identità autoriale. Come si confrontano due personalità, magari diverse tra loro ma capaci di dare forma a un’opera che ne sintetizzi il pensiero e la visione? Come pratica e poetica del singolo si esprimono, quando si è in coppia? La rubrica indaga i processi mentali, le interazioni, gli scambi, i dialoghi ma anche gli scontri, che portano dall’ideazione di un’opera fino alla sua realizzazione.
I gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio sono nati a Torino nel 1978. Lavorano insieme dal 1999. Negli anni hanno realizzato film, documentari e installazioni, partecipando a mostre e festival di cinema nazionali e internazionali, sempre coniugando arti visive e carriera cinematografica. Nei loro lavori, i De Serio indagano identità sradicate, individuali e collettive, in continua ridefinizione, toccando temi quali la messa in scena, la memoria e la performance.
Dopo i fratelli Ingrassia, siete la seconda coppia di gemelli che intervisto per questa rubrica. Per voi il lavorare insieme è una necessità o una affinità elettiva?
Veniamo da due percorsi diversi ma contigui. Quando abbiamo cominciato, io (Gianluca) stavo studiando storia del cinema, Massi storia dell’arte. Andavamo al cinema insieme, a vedere le mostre insieme, e discutevamo parecchio, provavamo a metterci l’uno nel punto di vista dell’altro, e in quello del regista o dell’artista.
E quale è stata la conseguenza?
In questo modo lavorare insieme è venuto naturale. Anche perché la conoscenza reciproca – e quindi la sintonia – era talmente forte che ci aiutavamo a vicenda, ci sostenevamo. Diremmo, guardandoci indietro, che iniziare a lavorare insieme è stato fondamentale, ci ha dato forza e fiducia in un mondo difficilissimo. Oggi che le nostre vite sono più separate, invece, magari abbiamo idee più divergenti, il che è a suo modo molto stimolante e ci aiuta sotto un altro punto di vista. Inoltre, c’è un aspetto più nascosto e forse biologico: lavorare insieme, per noi, è segretamente un modo per ricongiungerci dopo la separazione della nascita.
Vi sentite più vicini al mondo dell’arte o a quello del cinema?
Abbastanza lontani da entrambi. Eppure, ogni volta che affrontiamo un nuovo lavoro, che sia dell’uno o dell’altro campo, ne siamo completamente immersi. In ogni caso il cinema, che ha le sue regole e i suoi tempi molto lunghi, ultimamente ci ha assorbito più energie e ha preso più spazio, come del resto crediamo sia inevitabile.
Come mai secondo voi?
Si tratta di un’industria macchinosa e stratificata, dove ogni passaggio deve essere valorizzato al massimo, e ha anche una dimensione più collettiva che ci interessa molto. Del mondo dell’arte ci attraggono di più le possibilità libere del linguaggio e la dimensione più intima della fruizione. Ogni volta che affrontiamo un nuovo progetto, comunque, cerchiamo di dimenticarci del contenitore, e siamo solo noi con le nostre ossessioni, i nostri fantasmi.
Più che “di coppia” parlate del vostro lavoro come di “collettivo”. Come affrontate quindi questo lavoro collettivo? Avete comunque dei ruoli ben precisi oppure non ci sono distinzioni o gerarchizzazioni tra di voi?
Lavorare con le immagini in movimento vuol dire dirigere diversi professionisti specializzati ognuno nel proprio campo. La sfida è riuscire ad estrarre il cuore del nostro progetto, che spesso è molto intimo e incastonato nell’animo, e comunicarlo ai nostri collaboratori, cercando di coinvolgerli il più possibile in un processo di creazione collettiva. Ognuno, dando il massimo della propria professionalità, alla fine aggiunge un tassello nuovo. Crediamo davvero che il risultato finale sia sempre un po’ di tutte le persone che ci hanno lavorato. Tra di noi, all’inizio cerchiamo di seguire una divisione dei ruoli istintiva, che in ogni nuovo progetto è sempre diversa. Poi cerchiamo di rispettarla, evitando di sovrapporci.
Cosa vi affascina del confrontarvi con il video, con le immagini in movimento?
Le immagini in movimento sono uno strumento per noi molto potente di conoscenza della realtà, e con questo termine non intendiamo la realtà fenomenologica, ma quella più invisibile. L’insieme di scelte che il cinema ci impone, ovvero gli elementi come il quadro, il tempo, lo spazio, la luce, il suono ci permette di cogliere quello che nella vita quotidiana scorre segretamente intorno a noi e non riusciamo a carpire. È anche un modo di mettere ordine al disordine in cui la vita – giustamente – ci appare.
C’è un artista, o regista, a cui vi sentite più vicini per pratica e poetica o che che vi ha in qualche modo ispirato?
Abbas Kiarostami, che è stato un nostro maestro in un workshop di anni fa che consideriamo un momento cruciale per la nostra formazione.
Domanda di rito: ci date qualche anticipazione sui vostri progetti futuri?
Stiamo lavorando a un documentario particolare, un viaggio in alcune aree interne italiane, alla ricerca di forme antiche di canti polivocali che sopravvivono ancora oggi, come piccoli gesti di resistenza alla massificazione culturale. Poi stiamo preparando un film di finzione per il cinema ambientato negli anni ’30 e ’40, che racconta di Colonialismo e Resistenza attraverso un punto di vista inedito, tratto da una reale vicenda storica.
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