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Per il suo secondo film del 2021 Ridley Scott non abbandona la scelta del dramma in costume, passando dalle cotte di maglia di The Last Duel ai tailleur d’alta sartoria anni ’80. Con House of Gucci, il regista che è ormai garanzia di iper-produzioni stracolme di star, sceglie di raccontare tre decenni di crisi e rinascita del marchio fiorentino attraverso la parabola della coppia formata dall’erede Maurizio e dalla spregiudicata Patrizia Reggiani. Partendo dalla conclusione nota ai più, Scott mette in scena la ragnatela sempre più esile di rapporti umani e commerciali tra membri di un’élite decadente, per comporre pezzo dopo pezzo il puzzle dell’uxoricidio commissionato dalla stessa Reggiani al culmine del suo arco (biografico e narrativo) discendente.
Nel raccontare una vicenda oscura, Scott si impegna da subito a spiazzare gli spettatori attraverso la singolare, e ormai ampiamente discussa, scelta di far recitare ogni attore in inglese con una marcata inflessione italo-americana, come se le vicende in scena riguardassero una batteria di malavitosi del New Jersey anziché una famiglia dell’altissima borghesia nostrana. Il risultato interpretativo, se si considera anche il pesante ricorso al trucco prostetico, è una via di mezzo tra la caricatura di una soap latina e uno sketch del Saturday Night Live. Si trovano ai due estremi di questo cortocircuito scenico le interpretazioni di Jared Leto e Adam Driver: se il primo pigia l’acceleratore più di ogni altro collega, dando vita ad una rappresentazione di Paolo Gucci farsesca ai limiti dell’offensivo, il secondo riesce ad alternare attimi di compostezza a scene in cui la fisicità da airone e le smorfie rendono credibilmente le contraddizioni di un personaggio complesso come Maurizio Gucci. Stupisce come, nonostante la parte del leone, dell’interpretazione di Lady Gaga non resti poi molto, nè sul versante Academy nè su quello Razzie Awards: la sua Patrizia Reggiani è un personaggio abbastanza monocorde e privo dello spessore che ci si aspetterebbe dall’interpretazione di un’assassina da prime pagine.
Quasi ad incorniciare l’interpretazione della sua protagonista, l’intero film manca di inventiva, di spunti, di forza, in una sola parola di memorabilità. La difficoltà nel serbare il ricordo di più di un paio di scene da una pellicola di quasi tre ore è emblematica in tal senso. Il taglio delle inquadrature, la scelta delle luci e dei colori, il montaggio, la totale assenza della moda in un film sulla moda: ogni scelta di Scott cospira nel confezionare un prodotto che appare più prossimo alle cifre stilistiche della tv più datata piuttosto che a quelle del cinema. Come se non bastasse, l’esperienza del pubblico italiano è ulteriormente disturbata dall’incomprensibile scelta di girare la gran parte delle scene ambientate a Milano in celebri esterni romani: immaginate la confusione di chi scrive nel notare che l’acme drammatica della vicenda, avvenuta in pieno centro a Milano, si svolge su schermo nel cuore del quartiere Coppedè, con tanto di esaustiva inquadratura del riconoscibilissimo arco di Piazza Mincio.
C’è comunque da spezzare una lancia a favore di un film che la maggioranza dei commentatori sta amando odiare: nonostante la durata, il materiale narrativo alla base è sufficiente a tenere incollati allo schermo e a voler essere testimoni della creazione del mostro e della sua vittima, con il retrogusto voyeuristico dell’intrattenimento true crime a cui House of Gucci sembra strizzare più di qualche occhio.