Categorie: Cinema

Il piacere delle nostre paure, con Parasite di Bong Joon-ho

di - 11 Dicembre 2019

Piano e limite. Queste le coordinate logico-spaziali per comprendere Parasite, opera del regista coreano Bong Joon-ho, Palma d’ Oro alla 72ma edizione del Festival di Cannes. Molti ne sottolineano la matrice alto-basso, topica di alcune pellicole ispiratrici (Metropolis di Fritz Lang e The Housemaid di Kim Ki-young). Ma che, tuttavia, non spiega altre direttive più sottili: vuoto e pieno, colore e fusione.

Fissando il denso cielo di Parasite

Gli ambienti della pellicola, motori immobili della narrazione, più che una scala socio-economica fanno da base al sapiente gioco estetico di Bong e dello scenografo Lee Ha Jun. Spazi immaginati, che non esistono nella realtà. La grande casa dei Park, ricca famiglia borghese di Seul è stata edificata a Jeonju , Corea occidentale. Lo slum e il seminterrato dei Kim sono stati invece ricostruiti in un grande serbatoio d’acqua.

Ciò che distingue la domus mid-century non sono le linee minimali, i colori tenui del legno, le scultura di Seug Mo o la famosa vetrata di otto metri, quanto la possibilità di far respirare la vista, di far correre il piccolo Da-song Park per tutto il soggiorno, la cucina o su per le scale. Spazio vitale, merce rara anche nei ricchissimi quartieri delle metropoli asiatiche. Mentre il povero Kim Ki-woo, che insieme alla sorella Ki-jeong progetta di infiltrarvisi, è costretto per un tè a trasferirsi al bar fuori casa con il suo amico Min-hyuk, in uno scenario cyberpunk, tra vicoli nascosti e neon che tagliano oscuri internet point per gamers squattrinati.

Nell’orrenda bellezza del seminterrato, con loro padre Kim Ki-taek che si appisola sul pavimento, tra corridoi asfissiati da mobilio scadente, scatole di scarpe e paccottiglia, arriverà la pioggia. E la poltiglia di cose e uomini si perderà in una densità indefinita e incolore, inghiottita dal fango e dall’acqua.

«Sto fissando il cielo», ripete un estasiato Ki-woo, disteso sul grande giardino, come se lo stesse vedendo per la prima volta. Nella domus, i colori esistono ed è la luce a dargli vita, il castagno degli interni, il verde dell’erba, il bianco dei boschi innevati tutto intorno.

Se il piano della famiglia Kim è quello di invadere il mid-eum-ui belteu, il “cerchio della fiducia” dei Park, quello del regista è turbare l’equilibrio convenzionale delle cose attraverso un complesso gioco ricostruttivo dei sensi e delle proporzioni. La pietra della fortuna, un oggetto misterioso, sbilancerà la vita dei Kim, che si ristabilizzerà attraverso l’influsso del piccolo Da-song, un ragazzino/spirito domestico che, prima di tutti, avverte l’odore comune dei Kim (che ne tradisce la provenienza), e che gioca/invoca la pioggia riparatrice, mantiene contatti segreti con Gook Moon-gwang, la ex governante.

Parasite, ovvero, mai superare il limite

Dopo l’ottusità delle istituzioni in Memories of Murder, l’assalto frontale all’élite di Snowpiercer e la resistenza cieca di Okja, con Parasite Bong ci mostra questo spietato diorama 1:1, ponendoci una domanda più matura ma non meno aggressiva: le società contemporanee hanno un piano? Riescono a gestire ciò che succede al loro interno? La risposta ovvia si nasconde nell’altra coordinata. Il limite.

Mai oltrepassare il limite, chiede Mr. Park. Possiamo usare muri, cancellate, rampe di scale, leggi o simboli, in questa impellente necessità di ordinare. Ma rimaniamo animali nella tempesta. Travolti dalla pioggia torrenziale, certo, ma anche dal piscio di un ubriacone che ama farla davanti alla finestra-oblò dei Kim, dalla lanugine di una pesca che fa starnutire Gook Moon-gwang, licenziata perché i Kim la fanno passare per affetta da TBC, o dall’odore di questo seminterrato che il capofamiglia Kiteak si porta indosso.

Il corpo è (ancora) una macchina indomabile, che schianta barriere mentali come ogni scala inaccessibile. E Bong, con un certo sadismo, illumina anche noi, con il fascio della pila che parte dal tipi di Da-song in giardino, che ci osserva e ci restituisce l’immagine di noi stessi seduti in salotto con i Park.

Un luogo in cui poter nascondere tutte le nostre paure

Ma non è finita qui. Perché dietro la grande vetriera dei cristalli e delle ceramiche, si nasconde il ventre di cemento armato della casa. Un tunnel che porta a una panic-room illuminata da flebili neon, con pochi libri, una scrivania e un letto. Nell’ennesimo gioco di doppi fondi (la mente di un assassino, lo stomaco di un mostro e la locomotiva di un treno) Bong materializza il bunker inconscio di un intero popolo. Un luogo dove riparare in caso di invasione nordcoreana, certo. Ma anche dove sotterrare le paure più oscure – un attacco nucleare – e ancora oltre, per esempio i sensi di colpa di quei coreani che hanno scelto benessere e libertà, a costo di lasciare i propri fratelli nelle mani di una dittatura simile per oscurità a quella inflitta da Bong al “fantasma” Geun-sae, parassita repellente rinchiusosi per sfuggire ai creditori.

Anche lo splendida imitazione che fa la Jeong-eun Lee (che interpreta la ex-governante) di Ri Chun-hee, la celebre presentatrice tv che annuncia i test nucleari nordcoreani, quando minaccia di svelare con un sms a Mr Park la truffa dei Kim, è un avvertimento. Per tutti coloro che osano infrangere i piani e superare i limiti.

Fino all’ultima scena, che trasforma Parasite in racconto mitologico. Ma non ci si riferisce alla carneficina shakespeariana della festa per Da-song. Il giro di lancette di Bong si chiude con la corsa disperata sotto la pioggia, tra ringhiere e ammassi di lamiere, con l’acqua che si stende per le scalinate come torrenti e nugoli di cavi elettrici ormai rami e liane di una giungla tropicale.

Non un ritorno a casa ma una colpa da espiare per la protervia di Sisifo, quella hybris dei Kim che hanno osato cercare una vita degna, fatta di sapori, di spazi e di colori non concessi. La loro umanità deve essere punita duramente, come il loro desiderio fetido e il loro sudore aggressivo.

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