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Il ragazzo e l’airone: il nuovo film di Miyazaki in cui tutto diventa diverso
Cinema
Candidata al Golden Globe, l’opera racconta la storia di Mahito, un bambino alle porte dell’adolescenza, che affronta la morte della madre, la guerra, il nuovo matrimonio del padre con la sorella della madre, una torre magica, un airone mutaforma e un tempo cosmico che si ripiega su se stesso, unendo, in uno spazio alterno, differenti linee temporali. Usciti dalla sala si rimane lì, storditi, confusi ed emozionati. Non bisogna aver fretta di capire cosa si è visto, certe volte serve far decantare il tutto, far depositare strato su strato quelle emozioni, ogni immagine vista, ogni ricordo percepito. Miyazaki qui fa questo, ferma il giudizio e sospende la magia.
Se nei precedenti capolavori dell’artista, come in La città incantata (2001), Il castello errante di Howl (2004) e Il mio vicino Totoro (1988), si viene proiettati in mondi animati e digeriti da figure allegoriche e metafore spettacolari, in questo film è tutto diverso. Le metafore si fanno sottilissime, talmente tangibili da essere contemporanee e identitarie. La magia decade per plasmarne una nuova, e si generano nuovi paesaggi, nuovi mondi modellati dalla ragione e dalla creatività.
Il primo tema che ci viene presentato è quello della morte, una morte dolorosa e cruda. Mahito si sveglia nel cuore della notte tra le urla visive di una città in fiamme. L’ospedale in cui si trovava la madre è completamente distrutto e il tentativo di fendere il vento, correndo più veloce possibile per trovarla, gli permette solo di vederla in mezzo all’incendio. Si apre così la storia: non c’è magia, non c’è la fenice che rinasce dalle ceneri, non c’è Calcifer che muove il castello e ci porta lontano. Il tema della morte torna più e più volte, in modi sempre diversi ma lapidari. Ne è testimone il grande cancello dorato che protegge una tomba, la casa di un potente spirito, un dolmen di Poulnabrone silente, circondato da paesaggi liquidi.
Per chi ha visto il film, oppure per chi lo vedrà, inizia ad essere evidente un particolare, ossia il contatto con l’elemento terra, con la polverosità, con lo stare qui, nel fango, nel pantano. Miyazaki ha sempre dato molto spazio ai quattro elementi. Troviamo il fuoco distruttivo e creativo, l’acqua purificatrice che plasma i paesaggi, il vento dinamico, che diventa visibile nei film con le tante creature volanti e le visioni aeree, ma qui predomina la terra, solo e unicamente terra. La terra non è stata quasi mai veramente protagonista nel film di Miyazaki, qui invece è tutto diverso. Mahito striscia nella terra per entrare nella torre, sprofonda nel pavimento, cade nel fango, si ferisce con una pietra e gli animali che potrebbero volare invece lo fanno pochissimo. Un esempio sono i parrocchetti che vivono nell’altro mondo, parrocchetti giganti che pur potendo volare rimangono a terra. Anche l’airone cenerino, guida di Mahito e traghettatore tra i due mondi, in alcuni momenti fatica a prendere il volo e pur essendo un uccello rimane anch’esso a terra. Ci sono tantissime scene polverose, sporche di una concretezza visiva. Persino l’unico elemento veramente magico è un’enorme pietra, un meteorite granitico, statico e pesante.
Sebbene tutti gli altri elementi siano ben presenti nel film, alla fine si rimane sempre sulla terra, l’elemento più concreto e stabile fra i quattro. Forse è proprio la concretezza, lo stare qui e ora, il vivere nel presente caotico, sporco e imperfetto ad essere il fulcro del film. Che poi, a chi veramente importa vivere nell’ordinato e nella perfezione? Tema centrale è il tempo, che tuttavia non ci viene mai presentato, non viene narrato, lo si vive e basta. Nel lungometraggio si vede Mahito che, dopo essere entrato dentro una torre magica, incontra differenti personaggi che lo aiutano nel suo viaggio. Essi sono spiriti di altri tempi, umani di altri paesaggi. È il caso della madre di Mahito, che nel corpo di lei da bambina, lo guida su per la torre, attraverso luoghi e panorami che si mischiano in un mondo immaginifico, ricco di creature, frutto solo dei migliori sogni.
Il viaggio di Mahito si conclude quando arriva in cima alla torre, quando incontra il signore di quel luogo, il dio demiurgo di quel cosmo alterno al nostro. L’uomo è il prozio di Mahito, un personaggio mistico e ambiguo. Qui la narrazione diventa fumosa, quei significati si moltiplicano e diventano complessi. La storia racconta di come lo zio, ormai vecchio e stanco, non riesce più a gestire gli equilibri di questo mondo, dunque, vorrebbe lasciare tutto nelle mani di Mahito, dandogli il pieno controllo e facendogli costruire il suo nuovo mondo secondo i suoi equilibri e la sua creatività. Ma Mahito vive nella terra, come noi, e rifiuta il compito. Ecco qui il trionfo dell’instabilità, della fragilità caotica del nostro mondo. Questa scena e il personaggio dello zio divengono molte cose: diventano Mahito giovane che viaggia nella sua mente; rappresentano lo zio che incarna Miyazaki stesso e che ragiona sull’incertezza di cosa succederà dopo; si mostra un futuro ordinato, ma solo in modo apparente, che rischia il collasso giorno dopo giorno, mentre si oppone un presente caotico, imperfetto e instabile tuttavia ricco di potenzialità.
Ecco che il film si conclude così, non c’è un lieto fine, né un vero e proprio epilogo. D’altronde a chi importa la conclusione? A chi veramente interessa cosa succede dopo? Il ragazzo e l’airone è il trionfo della fragilità, è un viaggio mentale contemporaneo, è la storia di differenti attraversamenti fisici e mentali, è un taglio surrealista nell’occhio dell’osservatore praticato con la lama di un rasoio.