L’ultimo lavoro di Mario Martone, Il sindaco del Rione Sanità, è l’adattamento di un’opera teatrale di Eduardo De Filippo del 1960. O meglio, il film è, in verità, la trasposizione cinematografica della messa in scena del testo di De Filippo proposta nel 2017 dal collettivo teatrale NEST – Napoli Est Teatro di San Giovanni a Teduccio, per la regia dello stesso Martone. Il testo di De Filippo è conservato pressoché integralmente, aggiornandone però l’ambientazione al contesto contemporaneo: ne risulta così esaltata non solo la profondità, che siamo soliti associare al grande autore napoletano, ma anche la sorprendente modernità.
Il film si apre su immagini dall’alto della notte napoletana, accompagnate dalla musica trascinante di Ralph P: la sua Niente ’è nuovo è il correlato perfetto del cortocircuito temporale messo in forma dal film. E quest’incipit sembra assolutamente in linea col genere a cui il film sembra ascriversi, ovvero quello – molto frequentato dal cinema italiano contemporaneo – del ritratto delle periferie urbane, dei quartieri popolari di Napoli e Roma e delle loro criminalità micro e macro, da Gomorra a Selfie, da La paranza dei bambini a La terra dell’abbastanza.
L’esperienza dello spettatore viene però subito reindirizzata in direzione dello straniamento: i dialoghi fluidi ma fioriti tipici del teatro e il fare finanche rituale dei personaggi funzionano chiaramente in opposizione rispetto all’immersione fenomenologica nella realtà criminale e marginale che caratterizza generalmente questo filone di film. Si farebbe, a ogni modo, un’ingiustizia al film riducendone il valore a un’operazione meramente contrastiva. L’effetto infatti è spiazzante ma anche produttivo e, nel complesso, non inficia affatto la partecipazione e l’immersione nel mondo narrato. Questo anche grazie alla sapiente gestione degli spazi da parte di Martone, che usa magnificamente la mappa delle due case in cui si dipana l’azione del Sindaco, per evitare ogni senso di staticità o claustrofobia da palcoscenico.
La vicenda è quella di Antonio Barracano, padrino tutto d’un pezzo, che svolge una funzione di primaria importanza per gli abitanti del suo Rione Sanità: egli si fa infatti carico di risolvere liti e divergenze che sorgono all’interno della comunità di quartiere e rischiano spesso di sfociare nella violenza. La messa in scena dei veri e propri processi istituiti da Barracano, la liturgia del suo esercizio della giustizia lo costruiscono come personaggio titanico, di statura morale non comune. Nonostante sia anche una figura eccessiva e truce, Don Antonio rappresenta la possibilità di una legge giusta, che non tenga conto solo delle fredde logiche della burocrazia e del profitto, ma si fondi anche su un’etica dei legami interpersonali. La parabola di questo personaggio finisce così per costruire una riflessione pienamente filosofica sulla natura del potere e della lealtà, dell’autorità e dell’affetto.
Gli attori sono uniformemente ottimi (Roberto De Francesco, Salvatore Presutto, Massimiliano Gallo, Adriano Pantaleo e tutti gli altri), ma la performance centrale di Francesco Di Leva è assolutamente sensazionale. Il testo di De Filippo trova in lui, che per l’età e l’intensa fisicità parrebbe lontanissimo dalla concezione originale, un interprete carismatico e febbrile, insieme magniloquente e intimo. Di Leva coglie in pieno le sfumature di un personaggio dagli echi quasi shakespeariani.
Il film è stato presentato a Venezia, dove ha vinto il Premio Pasinetti, assegnato dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, per il miglior film. Purtroppo, è passato in sala per una serie di proiezioni-evento di soli tre giorni, dal 30 settembre al 2 ottobre: c’è davvero da sperare che Il Sindaco di Martone possa superare le imperscrutabili logiche distributive del mercato italiano e trovare ulteriori possibilità di essere visto e apprezzato.
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