Dal 9 al 16 ottobre scorso, si è svolto a Roma il Live Cinema Festival: otto giorni di performance audiovisive, spesso in prima assoluta, tutte incentrate sulla dimensione sinestetica. Lo slogan della manifestazione, la cui direzione artistica è affidata a Claudio Guerrieri, è infatti “Vedi i suoni, ascolta le immagini” e ogni evento serale è stato preceduto da un simposio in cui autori, curatori e artisti erano invitati a discutere sul tema “What is synesthesia?”. Il live cinema risulta particolarmente adatto a investigare le contaminazioni tra diverse sfere sensoriali perché si tratta, come spiegano dal festival «di una tecnica sperimentale applicata al video performativo che dà vita alla creazione simultanea di suoni e immagini in tempo reale».
Se la manipolazione e l’improvvisazione sono dunque le cifre caratterizzanti dell’evento, va detto che l’esperienza percettiva che esso ha proposto agli spettatori si è giovata grandemente anche dello splendido scenario prescelto. A ospitare questa edizione è stato infatti, per la prima volta, l’Acquario Romano. Questo edificio neoclassico, costruito nei pressi di rovine romane alla fine del XIX secolo ma relegato per decenni a magazzino, è stato restaurato a cavallo del millennio ed è ora adibito a Casa dell’Architettura.
La sua Sala Ellittica, che può in qualcosa ricordare la struttura del Pantheon, è stata dotata per l’occasione di uno schermo gigantesco da 20 metri per 5, che seguiva la curvatura della sala e garantiva una proiezione di potenza davvero rara. In questo modo, non erano soltanto le performance a parlarci del rapporto profondo che esiste tra l’immagine in movimento e l’esperienza del viaggio. La stessa location, lungi dal funzionare come mera scenografia esornativa, contribuiva, con la sua architettura schermica, alla messa in forma di un’esperienza autenticamente immersiva.
In una delle ultime occasioni possibili e sotto un clima piovoso che già pareva preannunciare gli angosciosi sviluppi dell’emergenza Covid-19, ho potuto assistere alle ultime due serate della manifestazione. Tra gli artisti che hanno presentato i loro lavori, gli ungheresi Žagar AV Experience (Balázs Zságer & Kati Katona), che con il loro Mirror of mind giocavano sul rapporto tra sonorità e immagini ispirate alle strutture della natura, ricordando per certi versi – anche a causa della bicromia – la lunga tradizione del cinema astratto, dalle Avanguardie degli anni Venti alla videoarte. Orbitoclast, dell’austriaco Patrick Lechner, prevedeva invece l’interazione di contenuti originali con elementi 3D realizzati in tempo reale, sfociando in un trionfo di cromatismi di rara potenza. Lo spettatore si trovava diviso tra la tendenza a lasciarsi avvolgere dalla meraviglia visiva e sonora e l’aspirazione a catturare almeno un frammento dell’esperienza con la fotocamera, secondo quel conflitto tra schermi grandi e piccoli che sembra essere uno degli aspetti più salienti del vissuto fruitivo contemporaneo.
E ancora, il canadese Maotik ha presentato Aeryon, in cui la visione di un drone di sorveglianza veniva trasformata in informazioni sonore tramite frequenze radio, con risultati davvero stupefacenti. D’altronde, se in Aeryon i dati, recuperati dal GPS, vengono completamente traslati in immagini spettacolari, prive di ogni rapporto col mondo dei fenomeni, ancora più interessante è stata, per la mia personale sensibilità (ma qui devo confessare le mie inclinazioni di studioso del cinema e dei discorsi sulla spazialità), l’esperienza proposta da Dylan Cote e Pierre Lafanechère con il loro Earthsatz.
I due artisti parigini sono partiti, come materiale di base per la loro performance, da Google Earth, e il loro titolo è infatti un calembour di difficile traduzione tra la parola earth (terra) e la parola ersatz, che indica un surrogato posticcio, un’imitazione di cartapesta. In questa idea di ibridazione tra realtà e finzione troviamo già tutto il senso dell’operazione: le immagini referenziali vengono infatti manipolate in modo da esaltarne la matericità. I paesaggi ripresi sembrano quasi di plastilina, la cartografia finisce per assumere fattezze organiche e questo lavoro sulla resa aptica delle immagini fa venire in mente le scenografie del cinema espressionista. Viceversa, certe modalità di avvicinamento allo spazio architettonico (ci sono molte inquadrature a piombo ma anche una ricca messe di altre prospettive dall’alto) trovano il suo rimando più prossimo nella potentissima scena di Inception in cui la città si accartoccia su se stessa.
Lo studio della monumentalità tradizionale si accompagna a un’attenzione ai paesaggi postindustriali, né d’altronde il contesto urbano esaurisce l’offerta iconica della performance: anche la natura è coinvolta in questo spettacolo immaginifico di ridisegno dell’orbe terraqueo. Al tempo stesso, le immagini, anche grazie alla dimensione musicale, non sono prive di angoscia. Il pathos del riconoscimento di una struttura paesaggistica si accompagna infatti allo sconcerto della sua deformazione: Cote e Lafanechère evocano l’immaginario apocalittico di luoghi vuoti e distrutti, che risuona fin troppo bene con la nostra situazione contemporanea. E d’altronde la sperimentazione dei due artisti non sarebbe completa se non lavorassero anche, autoriflessivamente, sul problema dell’immagine stessa, della sua qualità: i panorami iniziano a un certo punto a frammentarsi, come per una carenza nella risoluzione, e il pixel diventa così un ulteriore strumento per la decomposizione e smaterializzazione del mondo.
Con questa ricca proposta di performance, il Live Cinema Festival ha proposto un esperimento esaltante di allargamento della nostra fantasia visiva. E c’è solo da augurarsi che alla prossima edizione possa riscuotere, in circostanze più favorevoli per la collettività, un successo ancora maggiore di quello già cospicuo suscitato finora.
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