12 settembre 2020

Intensa, ironica, lucida, un po fictional, un po’ vera: Miss Marx, di Susanna Nicchiarelli

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Susanna Nicchiarelli conferma le aspettative e colpisce il pubblico di Venezia con la sua Miss Marx: una ricostruzione che mette in frizione il fictional e la verità storica, con lucidità e ironia

Presentato in concorso al 77mo Festival di Venezia e in uscita nelle sale italiane il prossimo 17 settembre, Miss Marx racconta della vita di Eleanor, ultimogenita del grande filosofo Karl. Il film è scritto e diretto da Susanna Nicchiarelli, che si conferma una delle registe italiane di maggiore rilievo: si ricordano soprattutto il suo esordio del 2009, la bella commedia di formazione Cosmonauta, e Nico, 1988, dedicato alla cantante già musa di Warhol. Alle prese qui con una coproduzione italo-belga, Nicchiarelli dirige con mano assai sicura, riuscendo a sfruttare tutti i pregi di una sinergia autenticamente transnazionale. Il risultato, conviene dirlo subito, è entusiasmante.

Di Eleanor Marx ci vengono mostrati tanto l’impegno politico e le istanze creative quanto la difficile vita personale. Il film si sofferma in particolare sul rapporto con il compagno, il dottor Edward Aveling, una figura controversa: da un lato complice in avventure intellettuali e ideologiche (a loro cura è la prima traduzione in inglese del Capitale, del 1887), dall’altro spendaccione amorale e fedifrago, la cui scarsa considerazione per i sentimenti di Eleanor finirà per entrare in aperta contraddizione con i discorsi femministi portati avanti dalla donna sulla scena pubblica. Eleanor, infatti, oltre a proseguire la lotta del padre contro lo sfruttamento dei lavoratori, estese il proprio attivismo anche alla rivendicazione dei diritti delle donne, ed il film è innanzitutto un’importante testimonianza a proposito di questa figura militante e moderna a lungo dimenticata.

Nel ruolo principale troviamo una Romola Garai davvero efficace. Già sensazionale nella parte della fiammeggiante protagonista ottocentesca di un sottovalutato film di Ozon, Angel – la vita e il romanzo (2007), Garai veste nuovamente i panni di eroina in costume, optando però per un registro completamente diverso. L’attrice si tiene infatti volutamente lontana dagli eccessi di pathos, costruendo con sapiente economia di mezzi il ritratto di una donna appassionata ma anche capace di analizzare lucidamente le dinamiche sia sociali che sentimentali in cui è coinvolta. Lo sguardo dolente e il portamento di Garai servono il personaggio alla perfezione, restituendo il suo progressivo senso di ingabbiamento e sofferenza, fino all’agognato momento liberatorio.

D’altronde il film tutto, nel suo complesso, è rimarchevole perché evita le consuete trappole dei biopic, che rischiano invariabilmente di ridurre il pensiero di grandi personaggi a mere faccende di gossip. Pur non mancando momenti di commozione pura, Nicchiarelli evita il più possibile la costruzione melodrammatica e quando essa è ineludibile, perché dettata dal materiale narrativo (non mancano colpi di scena sul letto di morte e rivelazioni devastanti la notte di Natale), gioca d’ironia, senza che questo vada a detrimento dell’intensità della messa in scena.

Essenziale a questo scopo, e più in generale all’economia espressiva del film, è l’uso della musica: dal repertorio classico più consueto e verosimile al punk rock dei Downtown Boys (tra cui una entusiasmante cover di Dancing in the Dark di Springsteen); dalla emozionante performance dei personaggi che, al funerale di Engels, intonano l’Internazionale, fino alla colonna sonora strumentale dei Gatto ciliegia contro il grande freddo, abituali collaboratori musicali della regista. Che sia sintonica all’epoca o decisamente anacronistica, la musica crea un equilibrio proficuo tra coinvolgimento nella trama e distanziamento critico.

D’altronde, una funzione simile la svolgono pure altri materiali eterodossi inseriti da Nicchiarelli a cadenzare la narrazione, innanzitutto le straordinarie fotografie d’archivio. Le immagini in bianco e nero dei lavoratori sfruttati (si riconoscono anche alcuni scatti di Lewis Hine), dei tumulti legati alla Comune di Parigi del 1871 e delle lotte sindacali di fine secolo funzionano come oggetti culturali che conducono lo spettatore ad una dimensione di fascinazione intellettuale più ampia.

Anche alcuni monologhi in cui Eleanor espone, in modo chiaro e accorato, le proprie posizioni politiche, collocati sul crinale tra racconto ed interpellazione diretta del pubblico, servono a questo medesimo obiettivo di straniamento appassionato. E una delle scene più efficaci del film è costituita da un passo della Casa di bambola di Ibsen, che Eleanor e Edward misero in scena insieme nel 1886, e che lo spettatore scambia per la sua intera durata per una vera conversazione tra i due personaggi. Il gioco di riverberi tra dinamica finzionale e contenuto veritiero si fa insomma vertiginoso, perché quello sul confine instabile tra realtà e fabula è uno dei temi principali del film (esso emerge anche, ad esempio, in una scena di spettacolo di lanterna magica che rimanda insieme al medium cinematografico e al discorso marxiano sulla fantasmagoria).

La ricerca dell’emancipazione e dell’autodeterminazione si scontrano, nel personaggio di Eleanor, con la forza dell’illusione. La convinzione negli ideali di libertà va di pari passo con una crescente, amara consapevolezza della potenza dell’inganno. Le scelte estetiche decise della regia servono a riflettere precisamente su questa condizione esistenziale femminile, restituendone sia la singolarità che il valore esemplare, sia l’esattezza storica che la rilevanza attuale. Con grande originalità e autentica ispirazione, Nicchiarelli riesce in questo modo a dare spessore rinnovato all’idea che “il personale è politico”.

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