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Dal 29 settembre prossimo, in esclusiva su ITsART, sarà disponibile Jago. The Rock Star, il documentario diretto da Giovanni Troilo e scritto da Filippo Nicosia e Marco Pisoni sulla grande mostra romana dedicata all’artista, conclusasi lo scorso agosto.
Jago. The Exhibition, curata da Maria Teresa Benedetti, è stata ospitata a Palazzo Bonaparte a Roma, dal 12 marzo al 28 agosto 2022. L’esposizione, che ha visto partecipi oltre 140.000 spettatori, tra i quali una rappresentanza molto elevata di giovani, ha riunito una selezione di opere realizzate lungo l’arco della sua carriera artistica, dai sassi di fiume scolpiti alle sculture monumentali.
Grande comunicatore, Jago riesce a raccontare efficacemente la sua arte, raggiungendo un ampio pubblico. Avvalendosi anche dei canali social pubblica, tra gli altri, diversi video che consentono ai fruitori di essere coinvolti nel processo creativo.
Il documentario Jago. The Rock Star, realizzato da ITsART in co-produzione con Ballandi Arts, è stato girato nel corso di una notte nelle sale di Palazzo Bonaparte. L’artista si racconta in prima persona, muovendosi lungo il percorso della mostra dove sono esposte alcune delle sue più celebri creazioni, come Apparato circolatorio, la scultura di papa Benedetto XVI, Habemus Hominem, The First Baby, Venere, Il Figlio velato e La Pietà.
La scelta di girare in bianco e nero crea una forte suggestione estetica in rapporto al materiale impiegato nelle opere (marmo, ceramica invetriata). Il gioco estremo degli effetti chiaroscurali evoca, al contempo, una voluta atmosfera di mistero enfatizzata dall’ambientazione notturna.
Il taglio di questo documentario trascende dalla mera dimensione informativa riguardante l’artista, già molto noto, ed è piuttosto orientato a proporre una lettura di alcuni tratti della sua poetica tramite il ricorso a una scelta stilistica piuttosto originale. Di questo ci parla il regista Giovanni Troilo: «Si poneva un tema di questo tipo: come avere un punto di vista differente su qualcosa che Jago racconta già molto bene? Quello che all’inizio poteva sembrare un limite in realtà ci ha permesso di affrancarci da alcuni obblighi che hai quando devi affrontare un documentario: quegli obblighi di esaustività (…) Nel caso di Jago avevamo il privilegio che il pubblico non partisse esattamente da zero ma conoscesse già molto bene l’artista e la sua arte. Quindi ci siamo proprio concessi il lusso di perderci. (…) Quello che abbiamo cercato di fare è stato proprio includere quegli errori, come la presenza stessa della troupe all’interno del documentario, e di concederci il lusso di un’esperienza».
In questa inedita esperienza per l’artista – per la prima volta protagonista di un documentario – ha giocato un ruolo importante la volontà di volersi svelare in maniera autentica di fronte alle telecamere: «La riflessione che fai è sulla spontaneità. Perché quando parliamo tra di noi avvengono delle cose molto vere. Poi, invece, ti ritrovi ad avere una telecamera puntata addosso e lì è tutto un altro mondo. L’obiettivo è far passare un messaggio che per te è vero senza che sembri che ci sia questa orchestra dietro».
A fronte del desiderio di raccontarsi nel filmato in maniera veridica, c’è una considerazione sulla fase del montaggio che, presupponendo un meccanismo selettivo, comporta di per sé un inevitabile processo interpretativo: «Di quelle dieci ore assieme è stata realizzata una selezione. Io ne ho dette tante di cose ma poi c’è qualcuno che ti può dire quali sono le cose che eventualmente vanno condivise e trasferite. È una lezione di vita, è un esercizio di sintesi. Che cos’è l’arte se non un gesto di sintesi?».
Nel filmato Jago fa allusione al concetto di “responsabilità”, processo attivo coadiuvato da un’intuizione originale che consente all’artista di attribuire un significato inedito a una qualsiasi comune forma: «La cosa che umanamente è interessante è forse il tema della creatività, del fatto di riuscire ad avere una visione, di riuscire a visualizzare dentro quel sasso una forma che è la mia forma. E questa possibilità di immaginare qualcosa all’interno delle forme appartiene a tutti. Ti arriva un sasso, un blocco di marmo e all’interno di quello spazio finito tu hai la libertà di immaginare un numero infinito di forme. L’unica differenza tra tutti quelli che si immaginano le forme e l’artista è che l’artista si assume la responsabilità di sceglierne una, all’interno di quel numero infinito di forme».
Suggestive le scene girate all’interno della sala dove è esposta l’articolata opera Apparato circolatorio, realizzata in ceramica smaltata, di cui l’artista ci racconta la genesi: «Quello che è interessante nel cuore è il movimento, avere una relazione con quel suono. Quindi che fai? Prendi un movimento del cuore lo dividi in 30 fotogrammi che poi diventano 30 solidi. (…) Non è una simulazione fatta al computer, non è un’ipotesi. È proprio l’effetto reale. Se la ceramica potesse muoversi nella realtà sarebbe così».
Bene è reso nel racconto di Jago l’evolversi del processo che approda alla creazione, nel quale è determinante l’elezione di qualcosa di inedito e inesplorato a oggetto della propria attenzione artistica. In questo senso la dicitura “Rock” nel titolo del documentario (JAGO. The Rock Star) evoca efficacemente la connotazione di originale sperimentazione: «Noi dobbiamo continuare ad essere mossi da una sana ambizione. (…) Noi tendiamo al minimo energetico, viviamo in una dimensione di conservazione (…) La persona che si sbilancia, la persona che vuole dire cose nuove va oltre l’istinto di sopravvivenza, che è un rischio, è pericoloso, è contro natura. Essere innovativi è contro natura. Ecco perché è per pochi. Pochi si assumono queste responsabilità».
Jago riflette, poi, su uno dei nodi problematici che investe l’interpretazione critica delle creazioni artistiche. Parlando della semantica delle sue opere, sottolinea che il loro valore e significato è insito nel processo di realizzazione: «Ho anche imparato che forse è meglio evitare di dare una spiegazione quindi mi trattengo rispetto a quello che vorrei realmente dire. (…) A volte è meglio stare zitti e arricchirsi dei significati degli altri. (…) Il tuo significato sta già dentro l’opera».
Nelle sequenze conclusive del documentario, in merito all’esperienza di esibire le sue opere in esposizioni, l’artista racconta: «Quello che ho capito attraverso questa esibizione, anzi è stata una conferma, è che a me non è che interessano più di tanto le mostre. A me interessano le cose che rimangono. (…) L’esibizione inizia e finisce. (…) Ho scoperto però che rimane qualcosa invece, e sai cosa rimane? L’umanità. L’umanità di tutte le persone che sono venute».
«Quello che si vede nel documentario – commenta con noi Jago alla fine della proiezione – è il momento che abbiamo vissuto lì e a cuore aperto ho raccontato delle cose che mi riguardano. Se riguarderanno gli altri questo lo vedremo quando uscirà sulla piattaforma».