La voce di Marisa Albanese è chiara, precisa, le parole decise e gentili al tempo stesso, come lei sapeva parlare, attraversano le ricche decorazioni del Teatro San Carlo. Espandendosi sulla superficie luminosa dello schermo, i rapidissimi fotogrammi della proiezione schiudono la doppia porta del suo studio e noi vediamo l’artista nei suoi gesti, nei suoi movimenti: sovrappone ampi e porosi fogli da disegno, sfoglia quaderni e diari, associa fotografie e acquerelli. La 26ma edizione di Artecinema, presentata ieri nel tradizionale e immancabile appuntamento al teatro più antico di Napoli, è dedicata a lei, artista determinata e poetica, prematuramente scomparsa nell’agosto di quest’anno di ripartenze e di riprese. «L’arte ci insegna l’apertura, la tolleranza», dice Laura Trisorio sul palco, introducendo la serata e ricordando la sensibilità di Marisa Albanese. Al suo fianco, alcuni dei registi che, nei prossimi giorni, al Teatro Augusteo, presenteranno i loro film dedicati alle storie e ai personaggi della storia dell’arte.
Ad aprire questa edizione che, finalmente, può sfoggiare un San Carlo al massimo della sua capienza, “Sguardo nomade”, cortometraggio di Fiamma Marchione girato nel 2017 e caratterizzato dall’asciutto taglio documentaristico ma con rapidi e intimi momenti di suggestione. Maestosa scena introduttiva sul paesaggio del Golfo, con la sua inestricabile sovrapposizione di natura indomabile, archetipi e architetture, la distesa del mare e la verticalità del vulcano, il reticolo fittissimo di Napoli e delle sue allungate diramazioni vesuviane. E poi è la voce della stessa Marisa Albanese a guidarci nell’esplorazione del suo sguardo sulle cose, ripercorrendo una vena poetica sottile e vicina alle stratificazione della realtà quotidiana, nei suoi drammi grandi e piccoli e nelle sue inaspettate meraviglie.
L’ambientazione principale è quella dello studio, la dimensione fisica e del pensiero in cui le opere non hanno ancora una definizione statica e appaiono in movimento, come se potessero diventare, da un momento all’altro, un’altra cosa, assumere una forma diversa. Quindi ricompaiono installate, a Villa Pignatelli, nello Studio Trisorio, al Museo del Novecento a Castel Sant’Elmo, compiute e ancora cariche di atmosfere, tra carta e pietra, tra installazioni ambientali da attraversare e delicate sculture bianche, dall’Ulisse omerico, epigono dello spostamento, all’occhio di Jacques Derrida, il suo scrivere senza vedere, tra volti, parole, citazioni e ispirazioni che sembrano appartenere a una dimensione impalpabile eppure sempre presente al di là del tempo.
Stili, scene e ritmi molto diversi per il secondo documentario di questa prima serata di Artecinema, “Banksy Most Wanted”, di Aurélia Rouvier, Seamus Haley e Laurent Richard e dedicato al Robin Hood dell’arte contemporanea. Realizzato nel 2020, la storia dello street artist anonimo si dipana per argomenti che poi ritornano nella narrazione, più che seguendo una cronologia, d’altra parte trattandosi di un personaggio anonimo non è affatto semplice stilare un profilo biografico che non sia una delle tante ipotesi sulla sua identità segreta. Alcune delle quali vengono raccontate dagli stessi giornalisti che hanno deciso di tentare la svolta della carriera svelando il volto dietro il nome: sarà Robert Del Naja, il leader dei Massive Attack già conosciuto sulla scena del writing? Oppure Jamie Hewlett, il creatore della cartoon band Gorillaz, con il quale sembra esserci una affinità stilistica? O magari un anonimo abitante di Bristol, frequentatore di una scuola privata religiosa e di una palestra di boxe? La risposta è sbagliata, giusta o entrambe le cose, come allude sornione Steve Lazarides, editore, fotografo e collezionista, tra i primissimi a sostenere l’arte di Banksy e compagno di tante incursioni, alludendo a una serie di indizi depistanti messi in giro dallo stesso artista. Che potrebbe essere chiunque di noi.
Un po’ V for Vendetta, un po’ Spiderman, la tentazione di trasformare un brillante e raffinato prodotto artistico, in un ondivago movimento di lotta al potere costituito è forte e gli autori gli strizzano l’occhio, non tanto per definirne la posizione nella storia dell’arte ma più per far divertire il pubblico, che apprezza e sorride di gusto alle trovate banksyane per eludere gli occhi dei controllori, dei custodi e delle telecamere di sicurezza.
Inquadrature tagliate e musiche sostenute da urban riot, tanti cambi di ambientazione, dalle affollate strade e imprevedibili strade di New York alla periferia industriale britannica di Port Talbot, fino agli eleganti stand di Art Basel Miami, seguendo le tracce lasciate della opere di Banksy che, appunto, sono trasversali, piacciono alle persone che ammettono di non sapere nulla di arte e ai collezionisti disposti ad atti di pirateria pubblica pur di tagliare un pezzo di muro sul quale è comparso quello stencil inconfondibile.
Tante altre storie ci aspettano da oggi, sia al Teatro Augusteo (fino al 18 ottobre), per riscoprire il piacere di assistere a un bel film nello spazio della sala, che sulla piattaforma online (fino al 22 ottobre), perché comunque anche lo streaming è una valida modalità di visione. E qui potete dare un’occhiata al programma, come al solito eterogeneo, bene assortito e fittissimo. Giusto per dare un’idea, oggi, tra gli altri, si va dal dietro le quinte di “Inside the Uffizi” al documentario dal taglio storiografico “La rivoluzione siamo noi – Arte in Italia 1967/1977”, fino al racconto privato della vita di Pino Pascali in Pino e ai progetti fotografici di Roselena Ramistella in “L’isola delle femmine”.
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