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La rimozione e le montagne: intervista a Micol Roubini
Cinema
Nell’ambito della Movie Week e in collaborazione con Milano Film Network, ieri sera una proiezione speciale all’iconico Cinema Beltrade in presenza della regista Micol Roubini e di Alessandra Speciale, direttrice del festival del cinema africano e presidente di Milano film network, per raccontare La strada per le montagne. Il film parte dalla ricerca della casa appartenuta al nonno della regista e diventa un’indagine più ampia sulla rimozione storica. I cinquant’anni di Unione Sovietica hanno dato vita a luoghi senza memoria
Anni dopo la morte del nonno, Micol trova alcuni oggetti di cui nessuno in famiglia è a conoscenza. Documenti della dogana scritti in ucraino e in russo, e una lista di beni che la sua famiglia aveva portato con sé nel 1957, emigrando dall’Unione Sovietica in Italia.
In una piccola scatola, in fondo ad un armadio, c’è una vecchia foto del 1919 che ritrae una casa mai vista prima. Si tratta della casa d’infanzia del nonno ebreo che nel 1941 fuggì da Jamna, un remoto villaggio nell’Ovest dell’Ucraina, sopravvivendo alla guerra e allo sterminio della famiglia.
Questi ritrovamenti rimandano una serie di ritorni diversi, vuoti narrativi, date che non corrispondono ai racconti familiari che Micol conosce. Misteriosi atti giudiziari riguardanti suo nonno, spingono Micol a partire per Jamna alla ricerca di quella casa e di un sommerso passato familiare. Arrivata al villaggio scopre che la casa si trova in un luogo inaccessibile, tenuto sotto sorveglianza da soldati e guardie armate. Quello che poteva essere solo un mistero personale, in realtà riguarda un’intera comunità.
Cosa hai trovato a Janma che ti ha spinta a girare il film?
Solo arrivarci è una grande avventura, un viaggio lungo e complicato. L’unico mezzo di collegamento con il mondo esterno è un treno vecchio di cent’anni. La prima volta che sono andata avevo con me solo la fotografia della casa di mio nonno che facevo vedere agli abitanti più anziani, bussando di porta in porta. La cosa incredibile è che la storia di questa casa ripercorreva un po’ quella della valle. La casa prima era stata una base tedesca e poi un importante centro scout dell’Unione Sovietica. Tutti mi dicevano “la casa è lì”, dentro i Sanatorio, ma io lì non potevo entrare. La prima volta che c’ho provato mi sono ritrovata un mitra puntato in faccia, senza sapere perché. È stata questa negazione, e la sensazione che ci fosse qualcosa sotto, che mi ha spinta ad andare fino in fondo.
Parliamo del Sanatorio, area sorvegliata e inaccessibile senza alcuna ragione apparente. Cosa c’è di straordinario dietro?
Quello che rappresenta il Sanatorio in realtà è una situazione molto emblematica dei paesi dell’ex Unione Sovietica: luoghi bloccati da una burocrazia surreale che rende il territorio stagnante. Anche quando filmavano vicino ai binari del treno c’erano dei militari che ci insultavano e facevano rapporto a Kiev, l’ho scoperto in seguito. La ragione è perché quelli sono “luoghi strategici”, dai tempi della guerra fredda.
Oggi il sanatorio è una voragine nera che si è mangiata il centro del paese. Una sorta di Triangolo delle Bermude dove non entra nessuno e che crea diversi inconvenienti anche a livello logistico. Tuttavia le persone del posto vivono come se questo luogo non esistesse, nessuno cerca di mettere in crisi questa situazione che non permette alla valle di rifiorire.
Per la realizzazione del film hai collaborato con il consulente storico Bohdan Shumylovych, anche curatore d’arte e dirigente di un centro di ricerca a Leopoli. Che elementi di ricostruzione ti ha dato in più?
Con questo film volevo sollevare una questione molto sottile: come si comporta una comunità rispetto ad una memoria collettiva e alla rimozione di essa. Queste zone durante la Seconda Guerra Mondiale sono state violentate in maniera feroce: migliaia di persone sono state ammazzate. E non solo per mano dei tedeschi. Ma nessuno ne parla. Anche durante le proiezioni del film in Ucraina, alcune persone mi hanno aggredito accusandomi di aver disonorato il loro paese! Bohdan e gli altri studiosi con cui sono entrata in contatto mi hanno aiutata a capire il perché, come interagire con questi luoghi, e come tradurre in maniera delicata tutto quello che veniva fuori. Le stesse grandi omissioni sono state riscontrate anche dal suo centro di ricerche.
E quali spiegazioni sono state abbozzate?
Alla base di tutto c’è una mancata elaborazione del trauma. Un uomo molto anziano nel film dice una cosa banale che però dà un utile margine di comprensione. Dice che in questa valle c’erano Ebrei e Polacchi, ma che se ne sono andati tutti… È un peso talmente insostenibile che le persone raccontano che sono andati via.
Da quattro anni cercavo un bosco del posto dove c’è stato un cruento eccidio, durante il quale sono morte più di duemila persone. Quando finalmente l’ho trovato ho scoperto che era a pochi minuti a piedi dal villaggio… Come fanno tutti a non sapere?
Sarebbe interessante approfondire questo rimosso da un punto di vista psicologico, è un processo molto complesso
Sì, tanto che il film è stato preso come caso di studio da un’Università in Ucraina per un corso di Psicologia del trauma, per loro è molto emblematico. Rappresenta come un luogo può cancellare tutte le memorie, a tempo immemore, su ogni fronte.
Quali sono gli effetti collaterali della rimozione storica? Cosa perdono le persone?
Quando ho iniziato a girare questo film mia madre mi diceva “cosa vai a fare dove ci sono le persone che hanno ammazzato i tuoi parenti”. All’inizio non mi importava, volevo vedere che tipo di processo porta ad un vuoto del genere. Poi però, ad un certo punto, quando ho cominciato a ricevere le prime minacce di morte, ho iniziato a pensare che non potevo fidarmi di nessuno. Il problema della rimozione storica è questo: se si ripetono certe situazioni estreme come la guerra, a prescindere dalla minoranza in pericolo, le persone potrebbero reagire allo stesso modo. È una questione di società. Se manca una corretta trasmissione dei fatti, non c’è né dolore né lutto, e il dramma potrebbe ripetersi. Alla fine si tratta di una mancanza di comunicazione che potrebbe essere molto pericolosa.
Verso la fine del film qualcosa si interrompe. La diffidenza delle persone aumenta e si fa palpabile. I loro sguardi più minacciosi. Avete alterato il loro equilibrio?
All’inizio io ero solo l’italiana che veniva a cercare il nonno. Per anni sono venuta a filmare senza disturbare, ma poi tutti hanno cominciato a chiedersi perché continuassi a piazzarmi davanti al Sanatorio. Si chiedevano perché volessi entrare. Poi ci sono stati dei fatti che hanno generato una vera ostilità nei miei confronti, anche se non dichiarata. Le persone cercavano di evitarmi. Avevamo in programma di filmare l’interno di una scuola ma poi di colpo la Preside ha iniziato a non farsi trovare più. Ho un filmato dove mi insulta. Per darti un’idea, la signora che parla all’inizio del film, nonostante ci conoscessimo da anni e non stesse dicendo nulla di compromettente, dopo le riprese mi fa: non succederà nulla di male a me e alla mia famiglia perché ho parlato vero?
Immagino tu avessi delle aspettative all’inizio di questo viaggio che sono state infrante. È infatti interessante vedere che alla fine il film documenta un grande vuoto…
Per me lo scopo primario era di riportare la frustrazione enorme e infinita che ho avuto io, la sensazione della palude. Perché in effetti ti aspetti che succeda qualcosa, qualunque cosa, e invece non succede assolutamente nulla, dopo anni e anni non si risolve nulla…
Il film è accompagnato per tutto il tempo dalla tua voce, ad un certo punto c’è un passo di un libro che tu leggi…
La citazione è la chiusa di ‘Tutto scorre’, di Vassilij Grossman (autore dissidente, e personaggio incredibile, i suoi libri furono salvati in maniera clandestina e poi pubblicati all’esterno prima che in Russia). Racconta di quest’uomo che dopo anni di guerra rientra al paese natale in cerca della casa della sua infanzia e dice:
“Vide sterpi di cardo selvatico, di luppolo. Niente casa né pozzo: appena qualche pietra, biancheggiante in mezzo all’erta polverosa, arsa dal sole. Restò lì, in piedi: canuto, ricurvo, e pur sempre quello di una volta, immutabile”.