L’apprendistato di Davide Maldi, presentato a Locarno nella sezione Cineasti del Presente, al cinema in questi giorni, documenta il percorso formativo di una classe di studenti dell’Istituto Alberghiero Mellerio Rosmini di Domodossola, che si ritrova a fare i conti con il futuro e con un mestiere da imparare, scelto senza passione.
Il film, con un approccio documentaristico non privo di ironia che a tratti ricorda il cinema olmiano, segue lo sguardo di Luca Tufano, un ragazzino con i capelli rossi (come quelli del regista) che più degli altri fatica a esprimersi. All’interno di un luogo sospeso, tra adolescenza e dimensione adulta, anticamera della società contemporanea, assistiamo a un delicato processo di individuazione della personalità, e alla ricerca degli strumenti necessari per sopravvivere al mondo del lavoro.
Secondo capitolo di una trilogia con cui Davide Maldi indaga la sacralità dell’adolescenza, attraverso storie e contesti diversi, ponendo sempre lo sguardo su giovani protagonisti poco ascoltati e con una certa natura selvaggia.
Il film viaggia a cavallo tra documentario e fiction. Cosa hai trovato nella realtà e cosa hai manipolato?
Mi piace molto giocare con lo spettatore, percepire la realtà e raccontarla come fosse una novella e viceversa. Con questo film il mio intento era quello di riprendere qualcuno-che tenta-di-addomesticare-qualcun’altro, dal punto di vista di chi viene addomesticato (!). E allo stesso tempo raccontare un contesto nel quale un ragazzo fosse portato ad accelerare il proprio processo di crescita. Imparare a quattordici anni le regole del mondo del lavoro mi è sembrato inusuale. Prima di iniziare le ricerche, avevo letto un piccolo manuale di Jonathan Swift, Istruzioni alla servitù (1745): una raccolta di suggerimenti in chiave ironica rivolto ai servi di allora, per sopravvivere presso la casa del padrone. Dunque, accompagnato anche da questa lettura, ho cercato di tradurre il paradosso di una situazione reale a cui assistevo.
É così che hai tirato fuori l’ironia che rende il film a tratti molto divertente?
L’apprendistato è forse il mio primo lavoro dove si compie una certa ironia… É stato molto difficile unire la volontà di collaborare con la realtà, con l’esigenza di manipolarla e gestirla, anche per raccontare tutte le sfaccettature che vedevo e quindi la parte ironica. Però mi sono accorto, soprattutto a Locarno, che la gente rideva dove si poteva ridere, senza prendere in giro nessuno. Sono contento di aver mostrato un aspetto, quello dell’ironia, che non avevo mai mostrato prima.
Come è avvenuta la scelta dell’Istituto Alberghiero di Domodossola?
Dopo varie ricerche ho capito che l’Istituto Alberghiero poteva essere il luogo più adatto dove muovermi, perché la professione del cameriere è fatta di regole e disciplina, le stesse da duecento anni, col fine di servire il cliente. Quando poi ho incontrato l’Istituto Alberghiero Mellerio Rosmini c’è stato una sorta di innamoramento: un palazzo del ‘700 con una storia importante e un’atmosfera solenne, costruito dai padri rosminiani, un tempo frequentato anche dal Manzoni… una scenografia perfetta per ambientarci un film!
Luca è un ragazzo che non si svela e fatica a esprimersi. Quanto c’è di autobiografico nei personaggi dei tuoi film?
Sicuramente lo smarrimento e il malessere di non aver trovato a quell’età dei confronti importanti. Io vengo da una scuola di suore molto rigida che mi ha costretto a vivere un ambiente con cui avevo poco in comune. Un po’ come accade a Luca… (in questo film c’è anche un connubio di capelli rossi!). Alla fine ho scelto lui come protagonista perché attraverso la sua esperienza potevo raccontare meglio le difficoltà nell’apprendere una professione a quell’età. Luca frequenta questo istituto, ma non è la sua scelta di vita. Ha un animo libero che forse difenderà: tutti i miei protagonisti hanno in sé una natura selvaggia assopita e sono persone che fanno fatica a imporsi, il classico adolescente meno presente nel percorso scolastico.
In Frastuono, il tuo primo lungometraggio, ci sono due giovani emarginati dalla società e dalla scuola che trovano nella pratica musicale un mezzo per uscire fuori dalla propria bolla adolescenziale. Come si posiziona L’apprendistato rispetto alla tua trilogia?
Frastuono racconta una situazione di stasi, di completa non conoscenza del futuro. L’apprendistato invece è una sorta di passaggio di consegna, ossia un ragazzo che viene già inquadrato dalla società. Il terzo, su cui ancora sto lavorando, sarà una sorta di ribellione adolescenziale a una famiglia che ha commesso diversi errori… Ho cercato di mettere questi tre film in dialogo tra loro, come se potessero compensarsi l’uno con l’altro, ma senza dichiararlo troppo. Mi piace l’idea che alla fine della visione di tutti e tre, ci si potesse ricordare del primo.
L’adolescente è nel pieno di un delicato processo di individuazione della personalità, dove gli adulti giocano un ruolo molto importante. Che adulti sono quelli nel film?
Nel film gli adulti sono molto presenti, quasi pressanti, eppure marginali nella composizione; parlano molto più dei ragazzi, però li vediamo meno di loro. Quando Luca pulisce il pavimento, sentiamo le direttive ossessive dell’insegnante ma senza vederlo. Il mio punto di vista è sempre quello dei ragazzi, quindi sto molto sui loro visi. Nei miei film i persi sono gli adulti, che già sanno come va il mondo. A me il mondo degli adulti non piace, spero che quello degli adolescenti sia migliore ma sappiamo tutti che non sarà così.
Parliamo del bosco e della fauna selvatica, elementi molto presenti e strettamente legati al processo di crescita del protagonista: prima della fine Luca passa per il bosco dove incontra il cinghiale…
Il bosco è un elemento ricorrente in tutti e tre i film, un luogo dove avviene il cambiamento. Nel caso di Luca, l’avvicinamento è sicuramente dovuto alla sua natura selvaggia che lo riporta di frequente in questa dimensione naturalistica che cercavo. Ha una forte passione per la caccia: sebbene non abbia mai ucciso un animale sa come farlo. Per questo è stato particolarmente interessante farlo specchiare, tanto con gli animali imbalsamati che popolano il Rosmini, quanto con il cinghiale nel bosco, attraverso una scena sceneggiata. Durante le riprese abbiamo trovato un cinghiale investito da un’auto; Luca, per allenarsi a sparare, ha preso un fucile da paintball e mettendo l’animale a distanza puntava e lo colpiva. È una situazione un po’ macabra ma anche metaforica di qualcosa che lui sta lasciando, come un animale che cambia pelle, forse in forma adolescenziale, poiché compie un atto con un fucile non vero su qualcosa che è già morto… È una scena a libera interpretazione.
Nel film sentiamo dei versi di animali, probabilmente legati all’immaginazione del protagonista. In generale la parte sonora veicola un certo senso di claustrofobia. Come avete ragionato a livello stilistico?
Abbiamo lavorato insieme ad un gruppo di persone, tra cui Giancarlo Rutigliano, Stefano Grosso e Marzia Cordò facendo un lavoro sul suono molto importante, al fine di ridare all’ambiente una sensazione “di palazzo”, di luogo completo, che dalla presa diretta usciva poco. Allo stesso tempo ho voluto utilizzare una colonna sonora che toccasse temi legati al rito di iniziazione, insieme ai musicisti/artisti Freddy Marphy e Chiara Lee, ragionando su suoni tribali che venissero dalla scena (timpani e tamburi). Poi diciamo che il tema portante è il respiro del ragazzo che crea questo senso di angoscia ma allo stesso tempo di empatia con il personaggio. All’inizio del film Luca sale la montagna, cresce il suo respiro e diventa musica…
Il film sfiora anche il tema delle relazioni di classi. La scena del coro ad esempio, quando i ragazzi recitano i dettami della loro futura professione, per certi versi è agghiacciante…
Sicuramente il film parte dalla relazione schiavo-padrone. Tuttavia per me quella scena ha una doppia lettura. È agghiacciante perché la scuola allena la classe a dedicare la propria vita ai clienti. L’insegnante sa cosa vuol dire lavorare in quel settore, sa che non è facile: prepara questi ragazzi a un rapporto che non sarà mai paritario: se ti vuoi salvare cerca di difendere il tuo sguardo il più possibile dall’incrocio con il cliente. È una sorta di consiglio. In quel momento l’insegnante si pone “alla pari” con l’alunno. Mostrare questa verità a un quattordicenne è dura, ma è un’azione profondamente onesta.
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