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Sembra che la linea della vita sul palmo della mano di Pino Pascali (Bari, 1935 – Roma, 1968) fosse corta. Per questo ad Anna Paparatti, sua storica amica, disse “morirò giovane”. Una triste profezia, tragicamente avveratasi il 30 agosto 1968, quando Pascali scomparve a Roma in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale con la sua motocicletta avvenuto nel sottopassaggio su Viale del Muro Torto. A cinquant’anni esatti da quel tragico avvenimento la Regione Puglia ha acquistato per la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare da Fabio Sargentini, gallerista e amico di Pascali, l’opera Cinque Bachi da setola ed un bozzolo, esposta nel 1968 alla Galleria L’Attico, all’epoca in Piazza di Spagna. Quella mostra, la prima organizzata in autonomia da Sargentini, succeduto nella gestione della galleria al padre Bruno, rappresenta il punto più alto di un sodalizio destinato ad interrompersi precocemente per la morte dell’artista. Bachi da setola è la seconda scultura di Pascali in Puglia, dopo 9 mq di pozzanghere della Pinacoteca Metropolitana Corrado Giaquinto di Bari.
Sono trascorsi due anni dall’acquisizione dell’opera e oggi un film intitolato semplicemente “Pino”, scritto e diretto da Walter Fasano, ricorda l’evento. Un’occasione quella della scrittura di un film troppo ghiotta per non ripercorrere liricamente e non senza scientificità l’intera vicenda biografica pascaliana. Presentato in anteprima assoluta il 22 novembre al 38° Torino Film Festival (svoltosi in modalità online a causa della pandemia) il video racconta la vita di Pascali attraverso le voci di Suzanne Vega, Alma Jodorowsky, Monica Guerritore e Michele Riondino. U
na narrazione cronologica ma non strettamente sequenziale che si dipana in tre lingue (italiano per le testimonianze documentarie e i sottotitoli, inglese per il racconto biografico, francese per i brani tratti dagli scritti o dalle interviste di Pascali), supportata dalle fotografie realizzate dallo stesso artista tra il ’63 e il ’68 ma anche di Ugo Mulas, Elisabetta Catalano, Claudio Abate, Marcello Colitti e da brani tratti dai film di Giosetta Fioroni, Alfredo Leonardi e Luca Maria Patella. Nel tracciato filmico alle molte testimonianze d’epoca si alternano le riprese di Pino Musi che documentano la partenza dei Bachi da Roma e il loro arrivo in Puglia, con le fasi di imballaggio e di allestimento. Passato e presente s’incrociano continuamente, fino a confondersi nell’utilizzo unificatore del bianco e nero.
Oltre che pittore e scultore, Pascali è stato animatore, grafico, pubblicitario, scenografo, attore e fotografo. Archetipi e miti mediterranei si fondano nel suo immaginario intrecciandosi a suggestioni contemporanee che danno origine ad un produzione ironica, spiazzante, talvolta irriverente. Irrequieto ma socievole, amava le motociclette e la pesca subacquea. Fin da bambino costruisce i suoi giocattoli a forma di armi, le stesse che poi nella maturità riproduce in forme monumentali, esorcizzando così la tragedia della guerra (erano quelli gli anni dell’impegno americano in Vietnam). Nel 1955 Pascali si trasferisce a Roma per studiare scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma. Ad appassionare lui e molti suoi colleghi sono soprattutto le lezioni di Toti Scialoja, docente di scenotecnica, spirito iconoclasta e promotore di un uso libero dei materiali. A partire dalla Biennale del 1964, quella con cui gli statunitensi impongono al mondo occidentale il loro modello culturale, capitalista e consumistico, rielabora in chiave personale i temi della Pop Art. Lui non ha nulla a che vedere con la Coca cola. Il suo mondo è nella terra, nel mare, nella zappa. Il suo sentire è più ancestrale. E proprio in quell’ancestralità Pascali rintraccia la via della sua modernità.
Il 1964 è anche l’anno in cui distrugge molte sue creazioni giovanili per intraprendere in toto la strada neoavanguardista, tra frequentazioni romane e propensioni poveriste. L’11 gennaio 1965 inaugura la sua prima personale alla Galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis. La mostra spazza via ogni provincialismo residuo e ogni avanzo informale. Brani anatomici e antichità romane sono trattati come oggetti di consumo, al tempo stesso immagini del presente e simulacri di un passato mai tramontato. Poco dopo nascono le armi. Il gioco si era fatto serio. Un vero e proprio arsenale montato – come ricorda nel film il collezionista Giorgio Franchetti – nel cortile dello studio di Via Boccea a Roma, tra galline e cianfrusaglie, in un palazzo di sette piani alla periferia di Roma. Con quelle armi allestisce, nel marzo 1966, la personale nella galleria torinese di Gian Enzo Sperone. In tutte le opere di Pascali emerge chiara la sua propensione alla trasformazione, una predisposizione che lo fece definire da Scialoja “stregone”. Trasformava tutto ciò che gli capitava per le mani, quelle mani “grosse, dure e sporche” come le ha definite Eliseo Mattiacci. Nel 1968 è invitato alla 34° Biennale di Venezia, dove a presentarlo è Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma e sua grande sostenitrice. La Biennale del ’68 è passata alla storia come la Biennale della contestazione, durante la quale, come gesto di solidarietà ai manifestanti, molti artisti girarono o coprirono i propri quadri, mentre altri chiusero le loro sale personali, a cominciare da Emilio Vedova. Anche Pascali, a malincuore, chiuse la sua ma, a differenza di molti, non si unì passivamente alle proteste ma cercò di comprenderne le ragioni e molte volte di controbatterle. Intraprese per questo una serie di discussioni, simili a comizi, con i manifestanti. Riteneva che per cambiare il sistema dell’arte nazionale – di cui la Biennale, riformata in epoca fascista e ancora fortemente centralizzata, era massima espressione – bisognava agire dall’interno e non distaccarsene.
Le immagini di apertura e di chiusura del video non potevano che essere quelle del mare, con cui Pascali ha sempre avuto un rapporto viscerale. Seguono all’inizio quelle del sottopassaggio romano. Inizio e fine appaiono nel film indissolubilmente legati, indicando subito le coordinate di una parabola artistica funambolica, brevissima eppure incendiaria. Un fuoco che si è accenso e ha divampato senza sosta, questo è stato Pino Pascali. Lo è stato per la sua fama di “ragazzo terribile”, definizione che bene ne metteva in luce l’essere vulcanico, l’ironia, la propensione al gioco e allo scherzo e finanche la passione amorosa, ma anche per la sua straordinaria capacità inventiva, che gli ha consentito in meno di cinque anni di lasciare un segno profondo nell’arte contemporanea italiana e non solo. Seppur fulmineo come una meteora, l’effetto della sua arte è eterno. Con implacabile furia creativa ha invaso le gallerie mentre le sue mostre si sono susseguite a ritmo incessante. Tutto questo in meno di un quinquennio, da gennaio 1965, periodo della sua prima personale a La Tartaruga di Roma, al 30 agosto 1968 (giorno del suo incidente). Nella sua breve vita ha tenuto nove personali, inclusa la sala alla 34° Biennale, premiata postuma, e quarantasette collettive, tra cui la storica mostra “Arte Povera” alla Galleria La Bertesca di Genova, evento di nascita del movimento teorizzato da Germano Celant.
Il video si chiude con un inevitabile interrogativo: dove avrebbe condotto Pascali la sua potenza immaginativa? Domanda volutamente ambigua da cui non si evince bene se era il primo a condurre la seconda o viceversa. Inutile chiederselo. Pascali era potenza immaginativa, era il suo mare, la sua terra, la sua ironia, ma soprattutto la sua inarrestabile fantasia.