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Michelangelo Frammartino, la trascendenza e il cinema con “Il buco”
Cinema
Immagini di paesaggi arcaici, dove la natura regna incontrastata e l’uomo vi abita in punta di piedi: l’ultimo film di Michelangelo Frammartino Il Buco, premiato al Festival di Venezia, ricorda per molti versi una delle più intense e meno note poesie di Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, composta nel 1830, dove il poeta racconta la condizione dell’uomo primitivo, che trascorre la sua esistenza vagando in territori inospitali e desertici. Luoghi assoluti dove il rapporto con la condizione trascendente dell’esistenza è facilitata dall’assenza di distrazioni e da una solitudine totale, alleviata solo dalla relazione con gli elementi naturali. La stessa atmosfera evocata in maniera coraggiosa e magistrale dalla pellicola di Frammartino, regista estremo e rigoroso che conferma il suo talento dieci anni dopo Le quattro volte.
Così, in un paese dove il cinema è visto e vissuto come svago e divertimento e assai raramente come occasione di riflessione e arricchimento intellettuale, Frammartino procede invece nella direzione opposta, e ci regala un piccolo capolavoro, che si muove su registri antichi e profondi, direi quasi epici. Senza cercare scorciatoie e apprezzamenti facili e superficiali, ma affidando il senso del racconto a pochi elementi basici ma resi in maniera perfetta: una fotografia magistrale affidata ad un maestro come Renato Berta e un sonoro in presa diretta, capace di provocare sensazioni oggi dimenticate che scaturiscono da un’immersione totale in un ambiente naturale incontaminato. Due i registri del film, che procede con passo lento ma sicuro per 93 minuti senza dialoghi, musiche o effetti speciali: i paesaggi del massiccio del Pollino in Calabria, uno degli angoli più selvaggi della nostra penisola, e le oscurità della grotta di Bifurto, una delle più profonde d’Europa, esplorata da un gruppo di speleologi piemontesi nel 1961, in un’Italia in pieno boom economico, evocato da una delle prime scene del film.
Un’impresa straordinaria, che conferma invece il coraggio e la visionarietà di un paese ancora sano in espansione, che all’epoca ebbe poco eco sulla stampa. Immerso in un film che si trasforma in un’esperienza che funziona in maniera ottimale con una visione in sala, attraverso la combinazione di suoni ed immagini lo spettatore riesce addirittura ad attivare gli altri sensi, e avere l’impressione di claustrofobia in alcuni passaggi particolarmente stretti dell’abisso, profondo 683 metri, e la sensazione di respirare gli odori del prato e del bosco, in questa fusione totale con la natura che oggi appare un ricordo vago e lontano. In una delle ultime scene risiede la chiave di tutto il film, quando vediamo un giovane speleologo che completa con un tratto di matita il rilievo sulla carta che passerà alla storia, come inno di rispetto e nostalgia per un tempo nel quale le cose producevano senso e non pulviscolo, suono e non rumore, passione e non frustrazione. E di questo mondo Frammartino è cantore, così come Leopardi cantava le angosce esistenziali di un pastore nelle steppe dell’Asia Centrale, tanto simili a quelle degli esseri umani di oggi.