Nato a Napoli ma cresciuto nella New York italiana, Milano. Gabriele Salvatores aveva già fatto Napoli-New York, a suo modo. Tra gli anni Settanta e Ottanta il capoluogo lombardo era il centro nevralgico di editoria, discografia, televisione, elettricità e nuovo teatro, scenari spesso linfati da illustrissimi talenti artistici di provenienza meridionale, anch’essi esodati. In quell’ambiente, come raccontato nel suo secondo film Kamikazen (1988), si muovono squattrinati comedians oggi affermatissimi. Tra questi fumi e questo sud concettuale, il regista si diploma alla Paolo Grassi, cofonda il Teatro dell’Elfo e la Colorado Film, assegna al suo cinema toni e colori di quello americano creando un’inedita miscela di grammatica action e vecchia commedia all’italiana: Adrian Lyne con la cadenza del cinema di Monicelli, Peter Gabriel mescolato ai fratelli Bennato. Caratterizzante per quegli anni, necessario. Un percorso che passa attraverso l’Oscar incredibile per Mediterraneo, manufatto che meraviglia anche per il solo concetto dell’ex terrunciello agli Academy Awards. Da lì la strada prosegue, autoindulge e si estetizza, cede a innumerevoli ingenuità rockeggianti, ma anche per questo non dimentica mai il ritmo, i forti contrasti e Walter Hill. Non si scorda che la concorrenza anni Novanta passa pure per le lenti giuste e, soprattutto, per il giusto montaggio. Così approda a Nirvana, oggi cult ma all’epoca sottovalutato, con un cast di kamikazen calati in una sceneggiatura rubata allo sprawl di Gibson e che fanno le gag di Mai dire Gol sul set di un Blade Runner ambientato a Milano. Al posto di Roy Batty, Abatantuono.
Incompreso, tra Denti e Io non ho paura, Salvatores si stanca, si disillude, capisce che questo Paese è la patria del profeta fuori patria e che, soprattutto, è un posto che ama i postumi. Ecco allora che si dimentica di sé, guizza per un attimo con qualche titolo, ma per il resto infila fiacchi tentativi di blockbuster e pallidi ritorni di Casanova. E poi, alla fine, filtrato dalla penna di Tullio Pinelli e Federico Fellini, Salvatores ci regala Napoli-New York, un’opera dalla grande ambizione che miscela richiami all’impegno civile con proposte spettacolari. Il risultato è ancora una volta un grande prodotto d’aspirazione hollywoodiana affidato agli interpreti, alle giuste lenti e al giusto montaggio. Non più i vecchi kamikazen, ma l’indiscutibilità di Favino e l’incredibile accuratezza naif dei piccoli Dea Lanzaro e Antonio Guerra, forse i migliori in scena.
La trama in breve: Napoli, 1949. La miseria dilaga. Tra contrabbando spicciolo e rocambolesche fughe, i due orfani Carmine e Celestina si ritrovano (quasi) casualmente imbarcati su una nave che li porterà clandestinamente a “Nuova York”, dove si metteranno in cerca della sorella di lei.
Il primo tempo si giova di un ritmo action con suggestioni felliniane (ad esempio, la strada delle meretrici), prende scugnizzi e sciuscià e li trasforma nei Goonies senza interferire nella bontà del racconto tragico della miseria. Il secondo tempo invece scricchiola, appare indeciso. Cosa vuole raccontare? La New York in CGI? Il legal drama della sorella carcerata? Il problema dell’integrazione? Oppure l’intimo, tenero vuoto tra Favino e Anna Ammirati? La risposta in questo caso è che vuol raccontare tutto senza escludere niente. E in questo sta l’errore. Perciò noi qui, da umili scribacchini seduti in poltrona, ci permettiamo di sognare un primo tempo che si concluda con la Statua della Libertà scambiata per la Madonna di Pompei, che prosegua in fade out sul dramma dei protagonisti, che lasci qualche utile ellissi e rinunci a tutta la CGI della prima parte del secondo tempo per dare fiato ai personaggi, a quelli di Omar Benson Miller e Antonio Catania in particolare
Tanto non dobbiamo dimostrare nulla a Hollywood perché il cinema lo sappiamo fare lo stesso, anche senza computer. Lo testimoniano l’ottimo finale e l’85% di un film vispo, pieno e corazzato che segna il parziale ritorno di Salvatores sulla strada del suo sogno americano. Da Napoli a New York appunto, ancora una volta ma ancora in attesa di un nuovo prodotto al 100% della sua portata. E ora via, a rivedere Nirvana. Dita incrociate.
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