Categorie: Cinema

Verso gli Oscar 2025: la forza di Vermiglio di Maura Delpero

di - 7 Gennaio 2025

Il secondo lungometraggio di fiction della regista e sceneggiatrice Maura Delpero – in sala da fine settembre, dopo il Gran premio della giuria alla Mostra del cinema di Venezia – immerge lo spettatore in un mondo di desideri segreti e dispiaceri muti, concentrandosi sulle vicende di una famiglia del Trentino alla fine della Seconda guerra mondiale. Fotografato con eleganza da Michail Kričman, Vermiglio, oltre i colori tenui e le splendide vedute, è animato da un’estenuante ricerca: quella della giusta distanza a cui posizionarsi per guardare ai suoi personaggi. Così, il pathos è spesso tenuto a freno e i tanti momenti di grande presa sentimentale sono smorzati da composizioni studiate e da un’idea di regia fondata su un’osservazione simil-documentaristica, ostentatamente distaccata – pur abbondando in ripetute sottolineature, atte a far risuonare i fatti della trama nei dialoghi. «Non hanno scelto loro di andare in guerra», chioserà, in dialetto, Cesare Graziadei, maestro nella scuola di paese e canuto e austero patriarca della famiglia protagonista, interpretato da Tommaso Ragno, quando in osteria sente messa in discussione la decisione di coprire la fuga dei due disertori da poco giunti dal fronte.

Maura Delpero, Vermiglio. Credits Lucky Red

Ma l’arrivo del silenzioso Pietro, il soldato siciliano rifugiatosi nel borgo, è destinato a cambiare i destini di tutti: a farne le spese sarà soprattutto Lucia, la maggiore delle tre sorelle su cui, più attentamente, si sofferma la storia. Senza dare facili giudizi né comminare comode condanne retrospettive, la regista – ispiratasi a fatti reali, recuperati risalendo il proprio albero genealogico – opta per uno sguardo duplice, tenero e freddo, coinvolto e critico al tempo stesso, nel ripercorrere le tappe della formazione e dell’età giovane della larga prole dei Graziadei, sempre sul punto di aumentare nonostante le scarse possibilità di sopravvivenza dei neonati.

Maura Delpero, Vermiglio. Credits Lucky Red

Indagato con attenzione, il microcosmo domestico prende vita nei particolari quotidiani che segnano i difficili tempi del conflitto. A tavola si sta stretti seduti tutti insieme, in un solo letto si dorme anche in tre. Il cibo scarseggia e persino il latte è razionato. I segni di una religione repressiva e invadente sono onnipresenti: ogni aspetto del reale deve passare senza eccezione al vaglio della morale cattolica. Proprio nel rapporto di contrapposizione che il film costruisce fra il padre e le figlie emerge – fin troppo evidente – la contraddizione di certe norme sociali. Il pater familias, ad esempio, indossa la sua maschera autoritaria quando decide chi deve andare avanti con gli studi e chi no, ma si dimostra, in altre occasioni, ben più fragile e ipocrita (per esempio, davanti alla dimostrazione di buon senso della moglie nella gestione delle finanze). Allietato nel suo studio dai Notturni di Chopin e dalle Stagioni di Vivaldi, cela nei cassetti della scrivania pacchetti di sigarette e album di fotografie pornografiche; Ada, la figlia di mezzo, accoglie, invece, ogni pulsione erotica con un senso di colpa che sfocia nell’autopunizione. Disseminate episodicamente per tutta la durata, queste notazioni si accumulano, rendendo chiara – più come constatazione che in termini di denuncia – la situazione di disequilibrio insita nella struttura patriarcale, che costringe le donne a esistenze che ruotano attorno al ruolo materno o di spose devote. Anche la precedente opera di Delpero, Maternal (2019), si concentrava su aspetti simili.

Maura Delpero, Vermiglio. Credits Lucky Red

A rimanere impresse sono comunque, più che altro, alcune scene isolate in cui non contano le parole ma i gesti e gli sguardi: la scoperta di una gravidanza durante la prova dell’abito nuziale, la soggettiva di due occhi nascosti fra le foglie che spiano due amanti, la cenere di una sigaretta fumata di nascosto e usata a mo’ di ombretto. L’emozione lungamente trattenuta, ma rilasciata in segmenti dal forte contrappunto umoristico, diviene il primo elemento di coesione di una narrazione che si dipana in un susseguirsi di quadri disposti in sequenza. Se la mancanza di sintesi (il dilungarsi nel viaggio in Sicilia) e qualche schematismo di troppo nella sceneggiatura rappresentano inciampi trascurabili, il ritmo dilatato, le inquadrature fisse e la musica solo diegetica – idiosincrasie stereotipiche del cinema “da festival” – rischiano di imbrigliare un racconto il cui riferimento, manifesto e inarrivabile, è L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi. L’intera visione è, così, accompagnata dal dubbio persistente che il film non trovi mai un respiro sufficiente per abbandonare il bozzetto e lasciar spazio al grande affresco collettivo. Gli sforzi fatti – in termini di messinscena e recitazione (convincono pienamente le interpreti principali, Martina Scrinzi, Rachele Potrich e Anna Thaler) – per dettagliare in modo tanto preciso un luogo, un tempo e un ambiente sociale si rivelano, se non addirittura inconcludenti, forse mal dosati per riuscire ad assommare le singole parti in un rapporto coerente con l’intero. Così il film ha superato la sfida non semplice di entrare nella cinquina internazionale candidata ai prossimi Oscar. Non resta che attendere il verdetto finale.

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