Certo, Olivia De Havilland è passata alla storia come la Melania di Via col vento, il classico di Victor Fleming del 1939. E in effetti ha incarnato alla perfezione la caparbia bontà che faceva da controcanto alla superba pervicacia della Rossella di Vivien Leigh. Ma chiunque conosca un po’ la storia di Hollywood sa che Olivia De Havilland è stata anche molto altro. Se qualcosa Miss De Havilland aveva in comune con il più celebre tra i suoi personaggi, non era certo la propensione alla melensaggine, quanto piuttosto una bella ostinazione, che ne hanno fatto uno dei nomi che hanno cambiato le sorti dell’industria cinematografica.
Nata in Giappone da genitori inglesi nel 1916, Olivia si trasferì a Hollywood a metà anni Trenta, diventando presto popolarissima in una serie di ruoli teneri ma già volitivi nei film di cappa e spada con protagonista l’indimenticabile Errol Flynn (da Capitan Blood a La carica dei 600, fino a quel capolavoro che è Le avventure di Robin Hood del 1938). La sua scalata alla fama precedette solo di qualche anno quella della sorella Joan Fontaine, più piccola di un solo anno.
Il loro rapporto ha rappresentato uno di quei casi tanto ghiotti in cui i giornalisti scandalistici non hanno dovuto lambiccarsi per inventare conflitti inesistenti: che le due sorelle si detestassero decisamente è dimostrato da numerose testimonianze da ambo le parti. Leggenda vuole che l’ostilità tra le due si esacerbasse allorché si ritrovarono entrambe a competere per l’Oscar alla migliore attrice del 1941: Olivia per l’interessantissimo dramma sulla frontiera USA/Messico sceneggiato da Billy Wilder, La porta d’oro, e Joan per l’indimenticabile Sospetto hitchcockiano. Secondo la vulgata, sconfitta da Joan in quella corsa, Olivia si rifece vincendo ben due Oscar nell’arco di quello stesso decennio.
Un racconto icasticamente efficace, ma problematico perché tende, nella sua volata, a elidere ciò che nel frattempo successe a Olivia, o meglio ciò che Olivia stessa fece succedere: esausta delle solite parti esornative e formulaiche da ingenua, De Havilland portò in tribunale la Warner Bros, che voleva estenderle il contratto oltre i sette anni pattuiti facendo contare in aggiunta i periodi in cui l’attrice, per aver rifiutato qualche ruolo insulso, era stata messa in sospensione. La storica vittoria contro la casa di produzione, ancora oggi nota come De Havilland Law, è stata uno dei primi tasselli che hanno iniziato a minare lo strapotere assoluto delle case di produzione, facendo vacillare l’oligopolio delle Majors e aprendo il mondo del cinema a rapporti lavorativi più liberi e meno palesemente ingiusti.
Olivia De Havilland è una donna che ha contribuito a cambiare le consuetudini di sfruttamento della macchina hollywoodiana, e relegarla al ruolo di diva litigiosa non potrebbe essere più sbagliato. Volendo perciò tornare un momento al racconto della sorellanza di odio tra De Havilland e Fontaine, non si può non considerare come esso si inserisca all’interno di una macchina mitopoietica che ha fatto del contrasto tra personalità femminili uno dei propri cardini, sia dentro che fuori dallo schermo.
Quanti film hollywoodiani (a partire, evidentemente, dallo stesso Via col vento), sono basati su questo tipo di conflitto? Una bella e seria riflessione femminista su questo immaginario della rivalità tra donne nel cuore del patriarcato capitalista del XX secolo deve ancora essere scritta, probabilmente.
A tal proposito, comunque, Olivia poteva vantare una pluridecennale amicizia con Bette Davis, sua agguerritissima collega alla Warner, che De Havilland riuscì addirittura a mettere in ombra: sia in In questa nostra vita di John Huston, nel 1942, che molti anni dopo, quando nel 1964 Robert Aldrich la chiamò in Piano, piano dolce Carlotta, nel 1964. E ancora, una delle interpretazioni più efficaci, godibili ma anche raffinate di Olivia fu proprio nel doppio ruolo di due gemelle identiche (l’una di indole buona, l’altra psicopatica) in Lo specchio scuro (Robert Siodmak, 1946). Mettendo in scena la pericolosa prossimità tra Bene e Male, De Havilland dà qui prova di una consapevolezza autoriflessiva e finanche ironica degli stereotipi che costruivano e costruiscono il femminile nell’immaginario collettivo.
Che Olivia non volesse cedere l’ultima parola sul tema fu d’altronde chiaro pochi anni fa quando, già centenaria, non resistette alla tentazione di intentare una nuova causa, questa volta contro Ryan Murphy e alla FX per il modo in cui era stata ritratta nella pur interessantissima miniserie Feud: Bette & Joan sulla faida tra Bette Davis stessa e Joan Crawford.
Mentre quest’ultima vicenda giudiziaria la vedrà perdente, settant’anni prima la vittoria sulla Warner aveva rappresentato invece per Olivia un vero e proprio trionfo. L’intera comunità hollywoodiana, pronta a metterla al bando in caso avesse perso, la riaccolse e coronò il suo successo con il primo Oscar, per A ciascuno il suo destino (Mitchell Leisen, 1946). La sua interpretazione di un tragico personaggio di madre mancata, che la storia segue nell’arco di ben trent’anni, brilla per intensità e intuitività.
Il secondo Academy Award le arrivò invece per il suo straordinario ritratto del personaggio di Catherine, nato dalla penna di Henry James, in L’ereditiera (William Wyler, 1949): De Havilland restituisce appieno la frustrazione e la tremebonda modestia di una zitella ottocentesca, poi il suo ardito e incredulo desiderio per il giovane Montgomery Clift, e infine il senso rabbioso di orgoglio ferito. Un’interpretazione davvero sicura, in cui la capacità dell’attrice di cogliere tutte le sfumature psicologiche del personaggio restituisce un vero senso di pienezza.
Ma forse ancora più esaltante, per lo spettatore odierno, il suo lavoro in La fossa dei serpenti (Anatole Litvak, 1948), crudele film su un ospedale psichiatrico che andrebbe fatto vedere a chiunque creda che il cinema hollywoodiano sia una faccenda per educande senza nerbo. De Havilland riesce dipingere un ritratto della malattia mentale di stupefacente modernità, calandosi del tutto sia nello smarrimento, nel caos interiore, che nella dimensione performativa e retorica che caratterizza il suo personaggio di paziente psichiatrica: un’interpretazione priva di affettazioni che rimane, all’avviso di chi scrive, il suo più grande risultato.
Si potrebbe continuare a diffondersi sulle altre belle interpretazioni di Olivia De Havilland, dal raffinato gioco sul registro dell’ambivalenza minacciosa che propone in Mia cugina Rachele (Henry Koster, 1952), alla recitazione tutta fisica e debordante del ruolo di una signora altoborghese rimasta intrappolata in un ascensore e seviziata da una banda di crudeli giovinastri in Un giorno di terrore (Walter Grauman, 1964). Ma se si vuole vedere Olivia al suo meglio, basterà in fondo anche guardarla presentare la riunione di tutti gli attori vincitori dell’Oscar per la cerimonia del 75mo anniversario, nel 2003: la gioia cristallina che traspare dalla sua voce elegantissima e gongolante restituisce bene il senso di una decana fiera del proprio ruolo. Olivia De Havilland è ora scomparsa a 104 anni, ma come questo numero magnificamente eccessivo, la sua stella continuerà a splendere.
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