Siamo stati a Firenze per la XII edizione di Lo schermo dell’arte Film Festival, rassegna di cinema e videoarte che quest’anno si svolge dal 13 al 17 novembre, come ci ha raccontato la direttrice Silvia Lucchesi. Dall’apertura con la mostra “VISIO. Moving Images After Post-Internet” alla proiezione dell’ultimo lavoro di Philippe Parreno e il talk di Jeremy Deller, ecco le nostre impressioni.
Giunto alla sua VIII edizione, “VISIO. European Programme on Artists’ Moving Images” è un progetto promosso da Lo schermo dell’arte e curato da Leonardo Bigazzi per sostenere e promuovere le proposte di giovani artisti legate al mondo delle immagini in movimento.
Il titolo di quest’anno è “Moving Images After Post-Internet” e raccoglie i lavori di 12 artisti internazionali under 35 per rappresentare uno sguardo sul fenomeno post-internet e sull’influenza della rivoluzione digitale nella pratica artistica. Da cinque anni il programma prevede anche la consegna di un premio, “VISIO. Young Talent Acquisition Prize”, che consiste nell’acquisizione di un’opera da parte della collezione privata italiana Seven Gravity Collection dedicata alla videoarte contemporanea.
Vincitore di quest’anno è l’inglese Patrick Alan Banfield con la sua Mein Bleick (My View) (2017), installazione di realtà virtuale (VR) in cui una volta indossato il visore Oculus Rift si è circondati per 10 minuti da un archivio di video molto eterogenei, tutti realizzati dall’artista. Dalle immagini di alcune proteste sotto la Trump Tower a quelle della vagina di un’amica, passando per la pianura della Ruhr, l’effetto flusso di coscienza è rinforzato dall’audio ambisonico in cui si sovrappongono a stralci le tracce sonore dei vari video.
Interessante anche All the world’s memory (2015) di Jacopo Rinaldi, unico italiano selezionato nella rassegna. Le parole e l’audio di Tout la memoire du monde (1956) di Alain Resnais sono sovrapposte in maniera notevolmente efficace alle immagini della sede di Google tratte da Google Street View e dal canale Youtube, dando l’impressione di descrivere il lavoro di archiviazione di informazioni operato dalla azienda di Mountain View. Si riferiscono invece alla Bibliotheque Nationale de France, rivelando così il capovolgimento capitalista dell’archiviazione “universale” che è passata da un’istituzione pubblica ad una compagnia privata.
Il festival ha aperto con l’atteso No More Reality Whereabouts di Philippe Parreno, una delle figure più interessanti della scena artistica contemporanea. Lavoro che ha riassemblato 13 video realizzati dall’artista francese negli ultimi vent’anni, tra cui Fleurs, No Ghost Just A Shell, Li Yang, Invisible Boy, Marilyn, CHZ, June 8 1968, The Boy From Mars, Anywhen.
Concepito per la sala cinematografica, sfugge però all’etichettatura di mero film venendo integrato da una doppia dimensione performativa: l’introduzione di un Dhalang, maestro del teatro delle ombre indonesiano e l’accompagnamento musicale dal vivo di Mikhail Rudy, costante collaboratore di Parreno. È la loro presenza, come racconta il Dhalang, a tenere di nascosto le fila di questa storia di storie, fatte di paesaggi e personaggi evanescenti come le ombre manovrate nel teatro indonesiano.
Il riediting di Parreno, si manifesta con sporadici inserimenti di elementi 3D o subliminali sfasamenti tra i girati ma non è invasivo e lascia spesso questi ultimi al loro originale fluire, preferendo conservare la densa e psichica atmosfera che li caratterizza.
Nella sfidante prova di inserirsi nello spazio stretto tra una retrospettiva ed un’opera nuova, No More Reality Whereabouts ipnotizza più di quanto sorprende, catturando morbidamente lo spettatore in una serie di stanze oniriche che si susseguono l’una dopo l’altra in quello spazio-tempo metafisico e sospeso tipico dei lavori dell’artista francese.
Al Cinema La Compagnia si prosegue con la proiezione di Letizia Battaglia: Shooting the Mafia della regista Kim Longinotto, un vivace ritratto che omaggia la prima fotoreporter italiana. Complice la schiettezza e la spigliata ironia palermitana della Battaglia il documentario coinvolge rapidamente e trasporta senza sforzo attraverso i suoi ricordi, documentati da molti scatti e girati del suo passato. È il ritratto di una donna che sperava di fotografare scene di vita della sua città e che si è invece immediatamente trovata a fotografarne i capitoli più oscuri, i delitti di mafia che hanno insanguinato Palermo dagli anni 70 in poi.
Costretta dalle circostanze Letizia Battaglia ha saputo trasformare una personale inquietudine psichica in un coraggio straordinario, che le ha dato la forza di documentare le tracce della spietata violenza mafiosa. Il film sa esprimere l’unione tra la leggerezza del suo carattere e la gravità dei suoi vissuti, è toccante senza gratuità ed è anche molto serio.
Protagonista del focus di Schermo dell’arte di quest’anno è Jeremy Deller, artista britannico vincitore del Turner Prize nel 2004 e rappresentante della Gran Bretagna alla Biennale di Venezia del 2013. L’artista che si definisce “istigatore di interventi sociali” ha tenuto un talk di presentazione dei quattro lavori presenti nel festival: Putin’s Happy (2019), Everybody in the Place: An Incomplete History of Britain 1984-1992 (2018), English Magic (2013), The Bruce Lacey Experience (2012).
Particolare attenzione è stata dedicata al suo ultimo Putin’s Happy, in anteprima nazionale, una fotografia critica di quella parte del popolo inglese animata dal pensiero xenofobo, isolazionista e patriottista che ha condotto alla Brexit. Il tono di Deller è molto serio e apprensivo anche mentre descrive i tatuaggi di un inquietante personaggio fotografato ad una manifestazione di Brexiters. Riferendosi ad un lavoro di Steve McQueen che raccoglie le fotografie della maggior parte delle classi elementari di Londra, chiaramente multiculturali, dice con gravità che, ad oggi, in Gran Bretagna ci sono due tipi di persone: “chi pensa che sia il futuro e chi pensa che sia la fine del mondo”.
Un’altra interessante lezione delleriana è Everybody In The Place, una lettura dei primi movimenti della rave culture e della nascita di generi come la acid house e la techno, come reazioni spontanee alla situazione sociopolitica dell’Inghilterra di quegli anni. Nel film Deller racconta ad una classe di ragazzi come questi fenomeni non rappresentino solo un momento di divertimento ma anche una spinta comunitaria importante per compensare il crescente individualismo degli anni Thatcher. Gli abbiamo chiesto se secondo lui questa funzione di collante sociale potesse presentarsi anche nella rave culture e nella club culture attuali, che si sono ormai diffuse e commercializzate. Deller si è detto ottimista e convinto che questo sia ancora possibile grazie al fatto che la musica evolve, permettendo il sorgere di nuovi underground aggregativi.
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