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Perfect Days: la poesia di Wim Wenders chiude un cerchio perfetto
Cinema
Un sole ancora umido sorge sull’orizzonte elettrico di Tokyo. Sulla linea di confine tra la notte e il giorno, insinuandosi tra formazioni allungate di nuvole esauste, scorre il fiume lattiginoso di un tempo impalpabile. Guidando la sua minivan attrezzatissima, in cui ogni cosa occupa il suo posto, Hirayama guarda dritto davanti a sé. Percorrendo le eleganti curve sopraelevate che portano al centro della città, l’uomo ride e piange allo stesso modo. Non c’è inizio e non c’è fine in questa alternanza di sensazioni e di circostanze che, per convenzione, chiamiamo cronologia degli eventi, così come non c’è fine e non c’è inizio in Perfect Days, l’ultimo film di Wim Wenders, in programmazione in questi primi giorni di gennaio nelle sale cinematografiche in Italia. Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, con il perfetto Kōji Yakusho che ha vinto il Prix d’interprétation masculine, Perfect Days è un’opera cristallina, che si legge in trasparenza su più livelli e si regge su una complessa stratificazione di sensi e sfumature.
È una storia senza storia eppure ogni scena ne nasconde una per svelarne sempre di diverse. Tutte gravitano intorno al personaggio principale, Hirayama, addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo. Appena accennate, le narrazioni intersecano argomenti dal respiro universale: l’amore perduto e da riscoprire, l’amicizia al di là delle differenze generazionali, la passione per il lavoro fatto bene, da rispettare e onorare ma come fatto personale, senza accondiscendenza e reverenza. E poi la seduzione delle conoscenze casuali e misteriose, un passato oscuro che si tende a mettere da parte, il rapporto conflittuale con una famiglia arroccata molto in alto nella spietata piramide sociale nipponica.
Questi rivoli carsici compaiono a tratti in superficie, brillano per pochi attimi sul volto empatico di Hirayama, arricchiscono le scene e denotano le azioni, quindi si perdono nuovamente, continuando a scorrere sottotraccia. Così come è la vita – dirà il saggio zio alla giovanissima nipote ribelle – composta da tanti mondi che solo in certi casi si toccano e che, talvolta, possono confluire attraverso certe figure apicali, coagularsi tra le persone o i personaggi. Come quelli di Palme Selvagge, inquieto romanzo di William Faulkner che Hirayama legge prima di addormentarsi, in cui due storie che sembrano non avere nulla in comune – una d’amore, l’altra di un evaso – si alternano tra le pagine.
Chi è Hirayama? Impossibile sottrarsi alla tentazione un po’ voyeuristica di chi mette insieme i frammenti. Gli indizi sono sapientemente disseminati e per l’osservatore esterno è un costante invito alla scoperta. Usa un cellulare datato ma lo maneggia con padronanza da executive, ama la cultura occidentale, ascolta su musicassette le canzoni anglofone e della controcultura degli anni ’60, ’70 e ’80, ma è sinceramente curioso delle novità letterarie giapponesi, così come delle uscite più pop. Lo chiamano “intellettuale” e si schernisce, mangia poco, sogna molto, scatta fotografie di paesaggi astratti con una macchinetta analogica 35mm non professionale, coltiva con cura rituale delle piccole piante adatte a crescere nella sua abitazione minuta, dove c’è spazio solo per l’indispensabile.
Tanto materiale narrativo e talmente poco usato che potrebbe bastare per ricavarne almeno una serie tv ma la scrittura è così asciutta e saporita da non rendere necessari ulteriori approfondimenti o infingimenti. Basta così, plachiamo la nostra bulimia da contenuti e da informazioi, la misura del sapere e del non sapere è quella giusta. Non c’è bisogno d’altro, nella sceneggiatura scritta dallo stesso Wenders insieme a Takuma Takasaki e che, per certi versi di limpida aderenza al reale, rimanda alla scrittura espressionista di Peter Handke (Il Cielo Sopra Berlino, Falso Movimento) seppure meno allucinata.
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In origine, il film era stato commissionato al regista tedesco per raccontare il progetto di riqualificazione urbana The Tokyo Toilet, finanziato dalla Nippon Foundation, potente e controversa organizzazione privata filantropica. Poi Wenders ha trasformato quello che, nella più felice delle ipotesi, avrebbe potuto essere un documentario di architettura su dei bagni pubblici realizzati da archistar quali Tadao Ando, Shigeru Ban e Kengo Kuma, in qualcosa di diverso, un’opera densa di significato e ricca di poesia, che mostra non dicendo.
Molto si è scritto sui silenzi di questo film, eppure, volendo dare una forma raccontabile a una meditazione sulla vita e sulla morte, sul ricordo e sul momento, sull’individuo e sulla società, sulla presenza e sull’assenza – dunque una riflessione ontologicamente basata sul dialogo tra due parti opposte e convergenti, come si conviene alla filosofia orientale – difficilmente si potrebbe risultare più eloquenti. Merito dell’interpretazione di Yakusho e di tutti gli altri attori che gli si alternano intorno. Ma anche di una perfetta economia del linguaggio registico, che bilancia le parole, i suoni e le immagini tendendo, più che al minimale, a ciò che è realmente essenziale, in un formato 4:3 che potrebbe risultare un po’ opprimente ma che serve allo scopo di avvicinare lo sguardo all’interiorità.
Una questione di calibri, una scelta di misura e da apprezzare per il coraggio controcorrente, rispetto alla magniloquenza di molta cinematografia Tripla A, come quella di un Oppenheimer, per citare un altro one-man movie dello stesso calibro. E infatti, rispetto alla costruzione barocca dell’ultimo film di Christopher Nolan, che ci fa arrivare stremati alla fine senza nemmeno avere chiaro il perché ma con il sentore che forse non era necessario essere così dispendiosi, i 120 minuti di Wenders scorrono ai titoli di coda con la consapevolezza – con il piacere di sapere – che la storia di Hirayama, l’uomo che indossa l’orologio solo nel tempo libero, potrebbe continuare a descrivere, anche al di là dello schermo, oltre la costruzione scenica, una forma perfettamente circolare, senza inizio né fine ma scandita da tanti piccoli, preziosi momenti.
ipotizzo che le piantine che lui con tanto amore coltiva e il virgulto che si porta a casa dal parco siano acero rosso, pianta a cui i Giapponesi tributano il significato di simbolo di cambiamento… il che, se fosse così, contribuisce a rendere affascinante questo uomo, la cui vita sempre uguale apparentemente, porta in se’ i germi del cambiamento…
La natura ha fatto in modo che sia caratteristico non solo dei pazzi ma anche dei saggi nutrire illusioni: altrimenti questi ultimi soffrirebbero troppo della loro stessa saggezza.