Judy Garland (René Zellweger) sapeva cantare, ballare, recitare fin da giovanissima. Il suo talento aveva però un prezzo, che ha pagato con le conseguenze di un controllo da parte di tutta una serie di persone fin da ragazzina. Il manager della MGM, in primis, le proibiva di condurre una vita spensierata come le sue coetanee adolescenti, sia nelle frequentazioni che nell’alimentazione per evitare che la ragazza si sciupasse rispetto alla sua immagine pubblica. Questo viene raccontato a flash back nel film Judy che ripercorre gli ultimi mesi della sua vita, tra pastiglie per dormire, disturbi alimentari, problemi con l’alcol, relazioni complesse con mariti, ex mariti e figli e un blocco totale nell’affrontare il palcoscenico nel corso del suo ultima tour a Londra.
Un talento raro, una donna iconica, ma, di contro, una fragilità sconfinata. La storia di Judy Garland è tratteggiata da sregolatezze e disturbi di varia natura, come spesso accade a tanti personaggi legati al mondo dello spettacolo e delle arti, di cui, spesso, il pubblico vuole vedere solo le paillettes. La Garland è stata costretta all’uso di anfetamine fin da quando era ragazzina, sia per toglierle l’appetito perché non ingrassasse, ma anche per sostenere i ritmi sfiancanti delle riprese dei film (in particolare per Il Mago di Oz). Le controindicazioni si sono presentate tutta la vita sotto forma di insonnia, insicurezza, una magrezza sconvolgente e la costante instabilità in qualsiasi situazione, per cui è stata dipinta come una donna dal carattere complesso, capricciosa e dall’umore variabile.
La storia di molti personaggi pubblici è accompagnata da situazioni analoghe, dove spesso il lavoro che sta dietro alla popolarità non viene percepito. In particolar modo negli ultimi anni, si delinea un racconto veicolato da media che sono gestiti direttamente dagli addetti alla comunicazione – i social network – o che ne è fortemente condizionato – i media tradizionali. Tuttavia, il controllo dell’immagine pubblica rende il mondo consapevole di aspetti parziali della complessità dell’avere quel tipo di esposizione. Tutto il lavoro sfiancante che accompagna il talento, che lo disciplina, che gestisce le folle, le agende piene, tutta la resistenza che viene alimentata quotidianamente per sopportare dei ritmi di lavoro estenuanti, per gestire gli spostamenti continui, per proteggere la vita privata, tutta quella parte sembra che il pubblico, spesso, non riesca non solo a metabolizzarla, ma neppure a prenderla in considerazione.
Per le donne, oltretutto, si aggiungono alcuni fattori culturali da cui è molto difficile prendere le distanze. La magrezza spesso è una caratteristica richiesta che va mantenuta negli anni e che costa sacrifici e, spesso, disturbi importanti. La bellezza e la gioventù eterne, per cui non è possibile abbassare gli standard e bisogna sottoporsi in continuazione a trattamenti, non si può mai essere fuori posto, neppure per andare a prendere le sigarette all’angolo. La morale, perché se una femmina si presenta nella stessa settimana anche solo con due accompagnatori diversi, se ha chiuso qualche matrimonio, se ha un abito troppo scollato o, semplicemente, se una sera beve un bicchiere di troppo, i commenti sono ancora gli stessi. La maternità, perché se una donna ha figli deve sempre essere prima madre e non può avere un lavoro che la trattenga troppo fuori casa, non può essere libera perché sarà spesso additata come degenerata.
La Zellweger incarna perfettamente la fragilità e la complessità di Judy Garland, dimostrando ancora una volta il suo talento. Questa interpretazione le è valsa numerosi premi, tra cui l’Oscar come miglior attrice, e un successo internazionale di critica e pubblico che il film, senza di lei, probabilmente non avrebbe saputo conquistare.
Pop Corn #18, René Zellweger, Judy, 2019, Regia di Rupert Goold
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