Manuela (Cecilia Roth) è una donna di 38 anni che vive a Madrid con il figlio. A causa di un incidente all’uscita di uno spettacolo teatrale, Esteban muore e Manuela decide di partire per Barcellona alla ricerca del padre che il ragazzo non ha mai conosciuto. A Barcellona è in scena lo stesso spettacolo della sera dell’incidente e la donna incontra le attrici e inizia a lavorare con loro. Nel frattempo, conosce una suora laica, Rosa (Penelope Cruz), che si affeziona a lei e la sceglie come appoggio mentre scopre sia di essere incinta dell’ex di Manuela, sia di aver preso l’AIDS da lui. Manuela ritrova la vecchia amica Agrado (Antonia San Juan), la persona con cui l’ex marito aveva iniziato a trasformarsi in transessuale quando lei, incinta, è scappata a Madrid. La vicenda prende una piega drammatica, Rosa muore e Manuela rincontra Lola, il padre di Esteban, dopo 18 anni.
La sensibilità di Pedro Almodovar nei confronti dell’universo femminile è nota e non si può non considerare il suo modo originale e assolutamente personale di rappresentarlo. Da un lato c’è un’attenzione maniacale per il dramma, l’emotività esasperata, che, insieme a tutti i dettagli anche più truci, concorre a restituire questa storia. Dall’altro, si trova una cura nei confronti dell’universo femminile, dove la parola universo è reale: le donne sono bambine, madri, suore, trans, attrici, impiegate, medici. Nel mondo di Almodovar le donne sono quello che dovrebbero e potrebbero essere libere di essere ovunque, ovvero tutto.
Manuela è una donna determinata, ha cresciuto un figlio da sola, scappando in un’altra città e rinunciando a tutto, ricostruendosi una vita dopo che il marito aveva iniziato a trasformare il suo corpo e a fare un uso smodato di droghe. Nelle scene iniziali, prima dell’incidente di Esteban, si intuisce la grande assenza di un uomo nella vita di entrambi, soprattutto per il ragazzo: le foto con i pezzi mancanti, l’assenza di una storia, di ricordi condivisi, sapere chi è quell’uomo, anche solo vagamente, conoscere la sua storia.
Il carisma di Manuela emerge nel rapporto con Rosa. Lei, riferimento per gli emarginati, individua in Manuela un punto fermo a cui rivolgersi quando si trova in difficoltà. Ma non solo, si fa assistere e aiutare quando sta male e le lascerà, come importante eredità, il suo bambino.
La carrellata di femmine incredibili non si ferma qui. Non si possono scordare le due attrici, tra le quali emerge Huma che con la sua classe, la sua delicatezza e il suo talento riesce a celare un’emotività difficile e instabile in cui anche il successo, come afferma lei stessa, diventa un problema ulteriore nella gestione delle persone e del privato.
Poi c’è Agrado, la transessuale che compare per la prima volta mentre sta battendo e prende un pugno da un cliente, uno dei personaggi più tipici dell’iconografia di Almodovar che ammette, davanti a una platea che “Una è più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa” dopo aver elencato tutti gli interventi chirurgici alla quale si è sottoposta.
Assolutamente non banale anche la madre di Rosa, una donna dura, difficile, una mamma che forse avrebbe desiderato una figlia più tradizionale, magari più egoista e meno stramba.
Il tratto comune di tutte queste signore è l’essere delle donne uniche e speciali, le stesse a cui Almodovar dedica il film, prima dei titoli di coda, con queste parole:
«A Bette Davis, Gena Rolands, Romy Schneider…
A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che agiscono, agli uomini che agiscono e diventano donne, a tutte le persone che desiderano essere madri.
A mia madre».
Tutto su mia madre ha vinto moltissimi premi, tra i quali emergono quello alla regia a Cannes e il miglior film straniero agli Oscar e ai Golden Globe.
Tutte le attrici, Tutto su mia madre, 1999, regia di Pedro Almodovar.
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