L’ultima opera di Marco Bellocchio compare sugli schermi nel 2023 dopo il clamoroso successo dell’epopea morotea (vera ossessione del regista piacentino), quel gigantesco what if ordito con Esterno Notte, in grado di restaurare afflusso in sala per l’autorialità italiana d’antan e ribadire la memoria nei riguardi di un regista italiano di insolita freschezza e vitalità, al netto delle legittime riserve che una qualsiasi voce critica possa prendere nei riguardi del suo cinema e delle sue licenze.
La trama di Rapito, in breve: a ridosso dell’Unità d’Italia, Papa Pio IX commissiona la sottrazione alla famiglia di un bambino ebreo che sarebbe stato, secondo il Santo Uffizio, battezzato segretamente e dunque non allevabile da famiglia giudea. Si metterà in moto una battaglia legale e politica che sfocerà nella strumentalizzazione e nel condizionamento del piccolo Edgardo Mortara.
Potremmo pensare a Rapito come a un legal thriller in cui la provincia americana è sostituita con l’Italia immediatamente pre-unitaria, sfondo in cui l’episodio di larga risonanza giornalistica del caso Mortara fu decisivo sia per l’avanzata dell’esercito regio che per l’ultima stoccata a Papa Pio IX, qui interpretato da un Paolo Pierobon che sembra un mix tra Richard Nixon e Hannibal Lecter (entrambi interpretati da Anthony Hopkins, sarà un caso?). Attorno a lui spicca un grande mondo antico dai contrasti elevati: chiaroscuro, denso, saturo, che strappa un plauso a Francesco Di Giacomo per questa aggiornatissima direzione della fotografia che si esalta nei momenti spettacolarmente puri dei carrelli a precedere, tra sbandieramenti, crolli e dolly. C’è qualche CGI mal fatta di troppo, ma questo è connaturato all’anagrafe della pellicola e al fosso di cui sopra.
Barbara Ronchi, sempre credibile, frusta e bellissima, somiglia a un delirio mistico di Zeffirelli (e non è un insulto) mentre il piccolo Enea Sala, nel ruolo del rapito, offre un’autentica prova d’innocente intensità. E se Gifuni è un po’ macchiettistico nel suo essere una specie di democristiano travestito da Bernardo Gui, Fausto Russo Alesi – un po’ feticcio ormai – finisce con l’essere magistrale nel suo stare a metà tra l’ebreo di Oliver Twist e un padre-eroe nei meandri di una società che oggi definiremmo “burocratica”, ma che all’epoca, con i teatri sontuosi dell’architettura e dell’arte sacra, offriva all’esercizio di potere vestigia tanto eleganti quanto micidiali.
Rapito, infatti, è un film sul potere. Racconta l’assurda logica delle “fiscalità” (nel film è il caso dell’anagrafe pontificia), emanatrici di regole veramente sensate solo per chi il potere lo esercita attraverso la violenza e mirando, come fine ultimo, all’adeguamento completo della vittima, che finisce per farsene addirittura promotore in una sorta di sindrome paolina. Questa è la cifra secondo cui, raccontando il fatto storico, Marco Bellocchio vuole inquadrare anche il resto della vita di Edgardo Mortara che, da vittima, diventerà sostenitore e missionario della Chiesa di Cristo, in modo rocambolesco e un po’ schizofrenico, alla maniera dell’idea per cui ci sarebbe stato un vero e proprio lavaggio del cervello. Ovviamente lo sguardo è quello dell’autore di sinistra che riprende uno sei suoi nodi cari, la religione appunto, legata alla sua formazione e alle ascendenze familiari, tema che ha mantenuto come costante in tutta la sua filmografia e che riemerge con nota dirompenza.
Rapito non è una delle opere migliori di Bellocchio e paga il pegno di essere uscita dopo il grande successo di Esterno Notte, ma è sicuramente un pezzo di buon cinema, affettato e appesantito in alcune parti (quota teatro compresa), ma anche elegante e solido. In ogni caso è una proposta da accogliere e di cui discutere, se non altro per il peso che la vicenda Mortara avrebbe avuto nell’esito della pamphletteria antipapista pre-unitaria secondo la tesi che il film sostiene e che, collocandosi nella rosa delle licenze di cui parlavamo all’inizio, potrebbe ancora aprire qualche interessante dibattito, proprio come si faceva una volta nei cineforum, quelli dei tempi andati di Marco Bellocchio, giovane regista di 85 anni. Lo trovate sulle piattaforme.
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