Categorie: Cinema

Resto del mondo vs Ultras: la partita del primo film di Francesco Lettieri

di - 24 Marzo 2020

In Ultras, primo lungometraggio firmato da Francesco Lettieri, regista già ampiamente conosciuto per i videoclip di Liberato e Calcutta, il pallone non si vede quasi mai. L’unica volta in cui compare, nei minuti iniziali del film, è calciato in alto, verso il cielo azzurro di Napoli, dall’iconico piede mancino di Diego Armando Maradona. Erano le 18.30 di un caldissimo 5 luglio 1984 e lo Stadio San Paolo, il tempio di Fuorigrotta, era gremito di giornalisti e tifosi, stipati l’uno sull’altro, macchine fotografiche alla mano e commozione negli occhi per quello che sarebbe successo. Con D10s non sbagli mai: 0-1.

Ma dopo aver percorso questa carrellata storica, il pallone lo sentiremo solo dalla radio. Quello che Lettieri e lo sceneggiatore Peppe Fiore vogliono raccontare, in Ultras, è tutto ciò che c’è al di qua del campo da calcio. Perché al di là, invece, c’è il Palazzo, le sedi del potere, le camere dei bottoni. Una storia affascinante ma che avrebbe dovuto mostrare le vicende di uomini – e probabilmente nessuna donna – soli, anzi, chiusi. Vicende di questa risma, legate comunque al mondo del pallone, compaiono solo in alcuni fotogrammi nel corso della bella carrellata di immagini cronachistiche in stile documentario, che accennano appena al triste fallimento della Società Calcio Napoli ma che poi si concentrano sulla girandola di calci, pugni, testate e sprangate, equamente distribuite tra gli autogrill italiani e i piazzali degli stadi di mezza Europa. Perché con Ultras, Lettieri vuole sviluppare una narrazione vicina al quotidiano, scandita da uomini e donne vicinissimi tra loro, uniti indissolubilmente dal sangue, dagli umori e dagli afrori.

Sandro, O’ Mohicano, storico capo del gruppo immaginario degli Apache, fa il suo ingresso in scena di spalle, procedendo verso un matrimonio appena celebrato. La camera lo segue ondeggiando, mentre O’Mohicano, in smanicato di jeans sfacciatamente anni ’90, entra nel mezzo della festa e tutti gli tributano l’onore dell’invitato più importante, il più atteso. Mani che si stringono, pacche sulle spalle, baci sulle guance e tutto l’armamentario prossemico del saluto e dell’incontro tipicamente meridionale. Dinamiche di prossimità che, viste in questi giorni di isolamento consigliato e forzato, sembrano appartenere a un altro mondo che chissà quando e se tornerà.

Ultras è infatti una delle ultime produzioni antevirus e anche tra le più attese. Grande curiosità c’era per questa prima prova più “impegnata” di Lettieri, che ha contribuito in maniera decisiva a trasformare Liberato in un case study. Lo stesso misterioso cantante, che aveva salutato, con un post a dire il vero un po’ macchiettistico, l’approdo del film su Netflix senza passare per la presentazione ufficiale al cinema causa Covid-19, ne ha realizzato anche la colonna sonora, diventata poi il suo ultimo album. Pubblicizzato puntualmente anche sul profilo Instagram di Netflix Italia, in maniera tanto esplicita quanto enigmatica, con il caps lock d’ordinanza: GRAZIA, GRAZIELLA, GRAZIOCAZZ.

E sarebbe ancora uno splendido esempio di intermedialità – campo nel quale il progetto Liberato ha saputo mostrare lampi di genialità – ma la formula del napoletano sta diventando una maniera, un modello di comodo sempre più distante dalla freschezza della lingua che evolve senza perder tempo a compiacersi. E visto che, proprio riconoscendo il grande merito dell’intermedialità, non si può osservare Ultras senza tenere in conto il mondo che l’ha preceduto e accompagnato, il tabellino fa segnare un’occasione sciupata.

Un’occasione non tanto per cambiare la sua vita, quanto per sancire ufficialmente uno scarto di atteggiamento e di pensiero che i suoi vecchi amici non gli vogliono riconoscere, la ricerca Sandro. E la trova anche con molta agilità. Addetto alle Stufe di Nerone, incantevoli e antichissime terme tra Bacoli e Pozzuoli – bella intuizione narrativa, questa – Sandro flette i suoi muscoli e fa rimanere sotto la botta la più giovane Terry ma, subito dopo il primo incontro, l’impressionato sembra essere principalmente lui. Ne scaturisce una storia d’amore che alterna momenti di comprensione e di litigio, ben resi dalla recitazione naif di Aniello Arena – la cui biografia meriterebbe un articolo a parte – e Antonia Truppo. Ma questo prevedibile ritmo di prendimi e lasciami, dove ai picchi di felicità corrispondono altrettanti baratri di disgrazia, fa cadere una relazione pur promettente nell’area dello stereotipo. Rigore con il cucchiaio: 1-1.

Volendo ambientare la sua storia a Napoli e nell’ambito del tifo napoletano, Lettieri non poteva non essere cosciente dei pericoli. Il soggetto originale nacque per un videoclip pensato per Calcutta e poi mai girato. Si doveva raccontare la storia der Mohicano, capo ultras del Latina, squadra che, dopo qualche apparizione in Serie B, attualmente milita in Serie D. Cosa sarebbe successo se, invece che approdare sul Golfo, Ultras fosse rimasto nell’Agro Pontino? Forse sarebbe stato più difficile, visto che l’immaginario di quella area è tutto da costruire, rispetto alla lunga tradizione iconografica partenopea.

Comunque, ciò che è certo è che il film non è stato accolto con entusiasmo dal tifo organizzato, che ha anticipato qualunque ipotesi di difesa e, ancor prima della prima su Netflix, aveva già schierato i suoi striscioni per inveire contro il regista e la sua opera. La vox populi, usando rime non proprio cortesi e font da stadio ai quali è legato lo stesso Lettieri, ha aspramente criticato non solo la rappresentazione piatta del fenomeno del tifo, ma anche la strumentalizzazione a fini pubblicitari delle vicende di cronaca, come il turpe assassinio di Ciro Esposito da parte di Daniele De Santis, prima della finale di Coppa Italia Fiorentina-Napoli del 2014.

In effetti, Angelo, il giovanissimo ultras protetto da Sandro, che sfoggia una fluente capigliatura bionda come citazione aggiornata di Nino D’Angelo, ricopre anche il delicato ruolo di fratello di Sasà, tifoso appartenente al gruppo degli Apache e ucciso anni prima, nel corso di eventi non meglio specificati. Di tristi casi del genere, le cronache nere non sono affatto avare ed era inevitabile chiamare in causa un evento del genere, anche se Ultras è un’opera di finzione e, nonostante la veridicità sia alla base del patto con l’osservatore – un paradosso difficile da sciogliere per questo genere di prodotti – non ha la pretesa di proporsi come un documentario.

La questione, però, non è lo stereotipo in sé – che poi, se vogliamo, è l’unica cosa veramente “reale” – ma il modo in cui viene usato. In questo caso, il lutto è già avvenuto, relegato al di là delle scene, non solo come antefatto significativo ma anche per sciogliere alcuni snodi della trama e delle relazioni tra i personaggi principali con fin troppa facilità. Ma le scorciatoie, in questi tempi in cui le serie tv ci hanno abituato ai lunghi tempi di analisi e di introspezione, sono una strada pericolosa da percorrere.

Il rischio è che, per rientrare in 108 minuti, troppi aspetti vengano lasciati irrisolti o, peggio, abbozzati. Il che funziona alla grande per un videoclip, che deve lasciare giusto il tempo di una sensazione sfuggente, ma in un film le aspettative di spessore sono altre. E Ultras è pienissimo di belle promesse appena accennate: dai baffi a manubrio di Barabba alla dentatura irregolare di McIntosh (“ma poi perché lo chiamano McIntosh?”, mi sono chiesto ossessivamente per tutto il film), i due grandi vecchi degli Apache che si scontrano contro i tatuaggi e gli atteggiamenti da Gomorra Cosplayer dei due giovani aspiranti capi, Pechegno e Gabbiano (anche loro belli da vedere ma chi sono, poi, non lo sapremo probabilmente mai). Da posizione fin troppo facile, il centravanti fa tap-in: 2-1.

Sì, perché è inevitabile parlare di Gomorra, immaginario al quale Ultras, pur non volendo affrontare il tema della criminalità organizzata – che invece era il motore dell’azione nel Ragazzo della Curva B – ammicca con fin troppa disinvoltura. Se la citazione si fosse fermata alla scena in cui i ragazzini compiono il loro battesimo del fuoco – usata furbamente anche per il trailer – attraversando incappucciati il fossato del San Paolo per lanciare i petardi nel settore ospiti, sarebbe stata apprezzabile. In fondo, Gomorra è pur sempre Gomorra e riferirsi a ciò che è diventato un mito è un espediente adoperato fin da Omero.

Ma questo portamento ritorna anche più in profondità, per esempio, in una camera che spesso si avvicina per sottolineare certi movimenti del corpo con ondeggiamenti fin troppo “cattivi”. E invece, è nei rari momenti in cui lo sguardo si apre e la cornice respira, che Lettieri sembra riuscire a esprimere una linea più personale e alcune riprese ampie sono veramente appaganti e gratificanti. Azione manovrata ma palla intercettata e contropiede fulminante: 3-1.

Fischio finale ma, in previsione del ritorno, quel goal fuori casa potrebbe rivelarsi fondamentale.

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