Nella cultura occidentale contemporanea, l’Olocausto riveste ancora un ruolo fondante. Fiumi di inchiostro sono stati scritti sulla dimensione universale di questo trauma, spesso concordando sull’impossibilità di rappresentarlo direttamente. Valicando confini storici e geografici, eletto a vera e propria a categoria dell’esperienza, è divenuto una chiave interpretativa capitale del nostro tempo. Fin da dopo la guerra, non è passata decade che non vi ritornasse con la volontà di attivare un dialogo fra il passato più o meno recente e il presente. L’elaborazione a posteriori e la messa in narrazione hanno assunto varie forme sia documentarie sia espressamente di finzione: così nelle arti visuali, riconoscere il limite oltre cui lo sguardo non poteva spingersi è diventata una questione centrale. Del rigore estetico e della riflessione sul visibile che connotavano alcune ricostruzioni cinematografiche ormai lontane nel tempo, si è fatto erede La zona di interesse di Jonathan Glazer opponendosi idealmente alla retorica lacrimosa e melodrammatica a cui il cinema – americano e non – ha spesso abituato nella produzione overground confrontandosi con temi simili. Il risultato è un’opera asciutta nello stile e accuratastoricamente che abbandona la tendenza alla spettacolarizzazione della narrazione tradizionale per affidarsi al carattere quasi astrattodella sinestesia.
La vita di tutti i giorni del gruppo familiare del comandantenazista Rudolph Höss e di sua moglie Hedwig (interpretati magistralmente da Christian Friedel e Sandra Hüller) occupabuona parte della durata del film. La famiglia, che vive accanto al campo di concentramento di Auschwitz, è spiata nei suoi momenti quotidiani e intimi, come in un reality show ante litteram. Nonostante la natura rigogliosa e il sole splendente, un’atmosfera glaciale circonda la casa e gli spazi circostanti. Giornate dai colori pastello illuminano il cielo sopra la tenuta componendo un contorno idilliaco che sembra uscire da un home movie degli anni Trenta. Ma è solo un’apparenza. Continui momenti di contrappunto sfruttano l’associazione e lo sfasamento di suono e immagine per costruire un ambiente invisibile: uno spazio di cui non si parla, anche se ciò che accade al suo interno è evidente. Il distacco formale – la macchina fissa, il punto di vista voyeuristico di molte inquadrature e la prospettiva ostentatamente documentarizzante – lasciano filtrare un senso di spaesamento sempre maggiore. L’orrore e le contraddizioni insiti nel conformismo di regime, sembra comunicare Glazer, crescono in seno alla perfetta famiglia tedesca.
Una giovane ragazza polacca, nelle sequenze notturne catturate con una camera termografica, compare a più riprese quasi come una manifestazione onirica, mentre nasconde delle mele nel campo per i prigionieri in un gesto isolato di generosità. Allo stesso modo, la narrazione semina tracce visive, lascia spie sonore. Del fumo si leva all’orizzonte sporcando un tramonto da cartolina. Il fuoco rosso di una fornace si riflette sul vetro di una finestra. Grida e spari, dal fuori campo, si sentono in lontananza, sovrimpressi sui fiori. Ogni scena produce schegge frammentate che provengono dalle crepe aperte passo passo nella rappresentazione, rendendo asfissiante e claustrofobica la realtà di paradossale violenza che il meccanismo del film cela oltre il giardino. La struttura, sotto forma di episodi più o meno brevi, avvicenda scene di questo tipo senza, apparentemente, suggerire nuovi sviluppi. Le aspirazioni, però, non si limitano all’immersione in un contesto unico e nella dimostrazione del dispositivo messo in atto per accostarvisi.
Il film attua uno scarto deciso, necessario a estenderne il senso, in coincidenza al passaggio in cui Höss corre il rischio di essere trasferito alla direzione di un altro campo. La moglie, per prima, resiste tenacemente a questa possibilità, rifiutando di far muovere la famiglia al seguito del padre e di abbandonare il suo Eden dissonante. Grazie a un viaggio a Berlino, la questione si risolve: non solo il comandante non è rimosso dall’incarico, ma gli viene assegnato il controllo di una nuova operazione di deportazione di migliaia di ebrei ungheresi. Al termine del soggiorno nella capitale, viene colto da un improvviso malore che gli provocairruenti conati di vomito. È forse preda di una crisi di coscienza, dopo anni di indifferenza totale? Lo sguardo di Höss lungo il corridoio buio provoca un salto temporale. Ai suoi occhi e a quelli dello spettatore è rivelato il percorso museale dedicato ad Auschwitz che, al giorno d’oggi, raccoglie diversi oggetti provenienti dal campo, mentre – con gesti automatici e ripetitivi –le dipendenti della ditta di pulizie tirano a lucido vetrine e pavimenti. Il processo di monumentalizzazione della Storia è soggetto alle stesse meccaniche consumanti dello sterminio. La memoria, nel presente, sembra ormai privata di ogni reale significato e impossibile da vivificare al di fuori della sua dimensione di materia inerte.
Se l’approccio a un immaginario ormai saturo e, per certi versi, inflazionato non si discosta dalla via maestra della riflessione sulla banalità del male, ribadire, in questa veste, un concetto noto – giàmolto indagato anche nel cinema – è un’istanza urgente in un’epoca in cui di (quasi) tutto si è testimoni ma che non conosce un’equivalente consapevolezza in termini di risposta politicacollettiva. La zona di interesse parla di un altrove che chiama necessariamente in causa un “noi” e le varie forme di esistenza anestetizzata delle odierne società di massa. Lo testimonia lo stesso, isolato, discorso di Glazer alla notte degli Oscar – durante la quale il suo film ha ottenuto due premi, al miglior film internazionale e per il miglior comparto sonoro – che ha suscitato grandi e rivelatorie polemiche, nonostante la lucidità e la ponderatezza nelle affermazioni.
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