Marta Bergman fa il suo esordio sul grande schermo con il film Sola al mio matrimonio (Seule à mon mariage), un emozionante ritratto femminile presentato per la prima volta al Festival di Cannes 2018.
La storia prende forma in un villaggio innevato della Romania dove la giovane protagonista Pamela vive in povertà assieme a sua nonna e alla sua bambina. La donna, senza lavoro né allettanti prospettive, incapace di accudire sua figlia, vede l’unica possibilità di riscatto nella figura di un uomo, possibilmente francese e benestante, che possa prendersi cura di lei strappandola da quella drammatica situazione. Pamela così si tinge i capelli di un rosso sbiadito, indossa il suo vestito più elegante, reliquia della madre, e si reca in un’agenzia matrimoniale, decisa a cambiare vita. Bruno sembra essere il nome inciso sul suo futuro, un piccolo borghese che, folgorato dalla bellezza della donna, non esita a invitarla a casa sua. Abbandonata la figlia di notte, sul letto, accanto alla nonna, Pamela arriva in Belgio determinata a integrarsi nel nuovo contesto.
La svolta tanto bramata dalla ragazza-madre si nasconde però timida e insicura dietro nuovi e insinuanti ostacoli. Bruno è sempre fuori casa, al lavoro o con gli amici, Pamela, non conoscendo la lingua, stenta a farsi comprendere. Le giornate diventano lunghe e noiose in quella città sempre grigia, la mancanza della figlia inizia ad affiorare e il feeling fra i due nuovi amanti posticipa sempre il suo arrivo.
In Sola al mio matrimonio, la regia di Marta Bergman ci offre un viaggio distopico attraverso le fragilità e le difficoltà di una vita vissuta ai margini della società. Pamela incarna lo stereotipo della ragazza dell’est Europa, abbandonata a se stessa con una figlia da crescere, senza soldi né talento, che vede la sua unica via di fuga nella fuga, nel famigerato e prosperoso Occidente. Grazie alla bellezza, unico dono che sembra averle riconosciuto la vita, sfruttato fino a ora per scopi poco degni («sei una puttana come tua madre» le rinfaccia la nonna), Pamela si procura il biglietto verso una nuova realtà.
La telecamera segue pedissequamente la figura della donna, imponendo allo spettatore l’attraversamento di un vortice di emozioni: la miseria, la speranza, l’illusione e la nostalgia. Marta Bergman rimane sempre in prossimità della sua protagonista, pronta a catturare ogni suo singolo gesto, ogni dettaglio del suo modo d’essere. Le riprese mai fisse ma in costante e a tratti fastidioso movimento, conducono il pubblico, scena dopo scena, nella psicosi turbata della giovane donna. Alina Serban interpreta magistralmente il ruolo che le viene affidato mettendo tutti d’accordo sul premio come Miglior Attrice assegnatole al Rome Independent Film Festival.
Nel complesso la figura di Pamela sembra avere un retroscena tutto pirandelliano, soprattutto se si pensa agli ultimi drammi dell’autore siciliano, quando seppe dar vita a personaggi femminili capaci di indipendenza e autonomia. Una catarsi, come nel caso di Pamela, che viene pagata con il prezzo più caro di tutti: la rinuncia alla maternità. Proprio per questo motivo, quando Pamela rivede dalla finestra sua figlia in braccio all’amico Marian, si trova davanti alla scelta di essere moglie o madre. Senza troppi indugi il suo istinto materno prevale, la donna abbandona la nuova vita e rincorre sua figlia, lasciando che il film si chiuda ad anello, nell’unione ritrovata.
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