Categorie: Cinema

Tanto hype, qualche flop, forse futuri cult. I 10 film (+1) che hanno segnato il 2024

di - 31 Dicembre 2024

Tempo di bilanci, che con il cinema giunge ai titoli di coda su exibart (dopo avervi parlato nei giorni scorsi di notizie, mercato, teatro, architettura, design e moda). A proposito di distribuzione in Italia, il 2024 è stato un anno prolifico per titoli, spesso all’insegna dell’estetizzazione pura. Spesso le attese si sono rivelate piccoli fiaschi (molti dei più chiacchierati in fase hype hanno poi perso smalto in fase post debutto) e i gioielli sono spuntati dal mare magnum delle piattaforme. Difficile affrontare l’anno con una classifica veramente comprensiva, dunque ecco una selezione non necessariamente dei migliori, ma dei 10 + 1 film che satolleranno le vostre giornate sul divano, le vostre dispute filosofiche e le vostre baruffe in merito a un eventuale tempo perduto. Sonno postprandiale permettendo.

LA ZONA D’INTERESSE, Jonathan Glazer

Uno degli exploit dell’anno è stato senza dubbio il Miglior Film Internazionale secondo l’Academy. Narra la storia della famiglia di Rudolf Höß, installatasi nelle residenze di Auschwitz durante l’assunzione del comando da parte dell’ufficiale nazista. La storia di una normale famigliola in trasferta causa lavoro del papà. Dall’altra parte del muro del giardino c’è però il nero del male assoluto. C’è chi ha parlato di “uno dei migliori film del secolo”, ma queste asserzioni ci lasciano sempre perplessi. Di quale secolo? Del nostro o del loro? Noi ci abbiamo rintracciato una stilizzazione espressionista molto in linea con l’estetizzazione pura in voga quest’anno, una prassi che qualcun altro ha scambiato per geniale o addirittura innovativa. Se fossimo qui a dare voti, noi gli daremmo 8/10. Ecco: 8/10, non 12/10. Dunque da vedere, ma con la moderazione dello spettatore consapevole. Gran film in ogni caso e splendida (quanto inquietantissima) locandina.

ALIEN: ROMULUS, Fede Àlvarez

Ancora estetizzazione. La pellicola di Àlvarez rintraccia il desiderio dei fan in una matrice prettamente decorativa. Il regista uruguaiano e il DOP Gaio Olivares danno fondo a tutto l’immaginario delle prime due pellicole della saga creando uno spazio esteso per la fraseologia, il dècor e le tecnologie obsolescenti dei due capolavori del 1979 e del 1986. Vent’anni dopo la tragedia della Nostromo, ci troviamo in una colonia simile a quella vista in Aliens, fotografata con i chiaroscuri ambrati del capostipite. Poi ci trasferiamo in ambienti che imitano quelli della celeberrima nave cargo, riesumiamo una vecchia conoscenza in pessima CGI, ma ci manteniamo su una quota prostetica molto più alta rispetto a quella degli standard attuali. Certo, se ci fosse un po’ di trama sarebbe meglio. Questo Alien 7 somiglia più a una gigantesca video-installazione che a un film. In ogni caso è da vedere (proprio nel senso assoluto del termine, vedere) anzi da proiettare in cornice, senza sonoro, come un quadro cinematico.

CIVIL WAR, Alex Garland

Reduce dalla scalibratissima allegoria femminista di Men, Alex Garland prosegue la sua ricerca ottica infarcendo di vignettature ardite la vicenda impossibile di una fotoreporter che si aggira in zona di guerra con una macchina fotografica analogica per soddisfare delle velleità artistiche assolute. Se il titolo sembrerebbe richiamare La seconda guerra civile americana o Alba Rossa, la cifra va in direzione opposta operando per rarefazione in un mondo neo-apocalittico che prosegue le futuribilità già viste in Annientamento ed Ex-Machina. Film lento, strano, quasi svogliato. Cede all’azione più per necessità che per gusto mentre Kirsten Dunst diventa sempre più simile a Billy Corgan e Cailee Spaeny pare voglia essere ricordata (insieme a Sandra Hüller) come uno dei volti chiave di quest’anno. La trama: negli USA imperversa la guerra civile e il presidente è praticamente Steve Bannon. Singolare a suo modo, quindi (anche solo per insultarlo) dategli una possibilità.

ANATOMIA DI UNA CADUTA, Justine Triet

L’Oscar alla miglior sceneggiatura di quest’anno è un legal thriller che sfida lo spettatore sul piano dei suoi preconcetti. Trova in Sandra Hüller (succitata una volta sola, ma anche interprete della signora Höß ne La zona d’interesse) il volto perfetto dell’imputata per omicidio del marito, musicista di successo spiaccicatosi sulla candida neve nel giardino antistante la villa di Grenoble in cui i due vivono rifugiati insieme al figlioletto. Una temperie di mal sopiti rancori, invecchiamenti precoci, morti improvvise e false piste, insieme a un andamento lento tipicamente europeo, forniscono allo spettatore lunghi alvei di riflessione. Questo film appartiene a quelle opere di ghiaccio in cui l’elemento climatico fornisce un décor eidetico del tutto funzionale alla storia. Non c’entra niente, ma noi vorremmo citare lo stesso Affliction, da vedere in doppietta in caso vogliate fare una micro maratona nevosa durante queste feste natalizie. Consigliata tisana rilassante in abbinamento.

NAPOLI, NEW YORK, Gabriele Salvatores

Il ritorno di Salvatores è pallido però stavolta va nella giusta direzione, arricchito da una grandeur spettacolare che il cinema italiano ben conosce, ma spesso pare dimenticare, e un triplo filotto reale ritornato con pallino di interpretazioni che, probabilmente, reggono metà dell’impresa. Al netto di un buchetto di sceneggiatura nella prima parte del secondo tempo, questa nuova installazione soddisfa i palati più tradizionalisti della spettatorialità italica, raccontando una storia di emigrazione abbastanza semplice (volendo anche banale) partendo dal soggetto di Pinelli e Fellini ma non scordandosi che il tema migranti è urgente oggi come allora, sono solo cambiati i ruoli in gioco. Allora, con attenzione alla contemporaneità, la storia di Carmine, Celestina e Don Garofalo finisce col diventare più toccante. Ottima fattura per una proposta ancora un po’ incerta ma decisamente curata e corredata di uno splendido finale.

WHEN EVIL LURKS, di Demiàn Rugna

Nel 2024 sbarca finalmente in multi-piattaforma quello che sulla carta sarebbe un B movie di tutto rispetto ma che in realtà rappresenta il manifesto di quanto possa essere possibile dire qualcosa di nuovo con pochi mezzi e, soprattutto, con gli stessi, apparentemente stantii, ingredienti. In un’Argentina che sembra un misto tra l’Agro Pontino e la Louisiana, il Male si aggira come fosse un virus, viene affrontato con esorcismi in forma di profilassi e, soprattutto, in memoria di una indimenticata pandemia, si propaga principalmente attraverso la stupidità dell’uomo, dell’ignoranza e dell’ira sconsiderata. Anche della paura, certo. E quella non manca in questo gioiello horror che ribadisce a noi tutti che il genere in questione rimane uno dei più vitali del secolo e, per ora, sembra voglia regalarci ancora interessanti sorprese. Se volete stare meno comodi sul divano postprandiale di cui parlavamo poc’anzi.

PARTHENOPE, Paolo Sorrentino

È stata la mano di dio. In una Napoli dell’anima, l’anima di Napoli viene rappresentata attraverso un bildungsroman comico, blasfemo e molto erotico che affida al corpo pulsante di Celeste Dalla Porta tutto l’amore che il regista nutre per la propria città. Ne scaturisce un racconto denso, a tratti ridondante, che riscrive il mito di Partenope e lo aggiorna alla figurazione sorrentiniana. Chi ha storto il naso si è dimenticato che tutto ciò che è contenuto nel film altro non è che l’opera di Sorrentino stesso, quindi nulla di più coerente. Autoindulgenza? Può darsi. Una cosa di cui possono avvalersi solo i grandi autori. Da recuperare assolutamente per almeno due motivi: il primo è il completismo nei confronti di uno degli autentici mostri viventi del nostro cinema, il secondo è il tesoro di San Gennaro.

MEGALOPOLIS, Francis Ford Coppola

Ancora un’opera divisiva di un altro maestro del genere divisivo. Basta sfogliare la filmografia del cineasta per rendersi conto di quanto la sua cifra sia avvezza all’ipotecarsi la casa in progetti sventati. Ma senza questa protervia autoriale (ormai scomparsa dalle pagine della prassi statunitense) non avremmo l’American Zoetrope. Questo Megalopolis è il tentativo di regalare una summa a tutto ciò, in una forma forse troppo digitalizzata che somiglia più alla pubblicità di un profumo di Laura Biagiotti che a un film. In una New York ribattezzata New Rome, e che richiama tanti allestimenti teatrali ucronici (vedere Titus), un archi-star dotato di super poteri sta per fondare una città utopica con un miracoloso minerale di origine sconosciuta. Cast ultra stellare per un’esperienza meno nuova di quello che sembra ma completamente differente da quella che ci si aspetterebbe. Da vedere perché ci parla a suo modo del destino del Cinema ed è fatto da uno che è il Cinema stesso.

MAXXXINE, Ti West

Una delle sorprese di questi anni è stato l’exploit autoriale di questo apparentemente anonimo regista di ultra genere. Con la trilogia di Pearl, l’americano ci regala un divertissement citazionistico che completa la poetica di Tarantino e Rob Zombie nell’epoca del nostalgismo millennial. Forse Maxxxine è il capito più ambizioso della saga, quello che detiene una maggior massa in fatto di spettacolarità e risulta denso e procace come un film di quelli che vuole omaggiare, cioè i capolavori dell’horror degli anni Settanta e Ottanta. Nulla di così vecchio eppure nulla di così nuovo. Pura estetica per un film in linea con la cifra del periodo e che, in fin dei conti, si ritrova a raccontare parte del nostro modo di interpretare la cultura brossurata in edizione economica che ci siamo ritrovati ad avere. Mia Goth, unita alle succitate Hüller e Spaeny, finisce dritta dritta nella gallery femminista dei volti chiave del 2024.

DUNE – PARTE 2, Denis Villeneuve

Il regista canadese si è distinto in questi ultimi anni per la capacità di prendere in mano progetti di sequel apparentemente irrealizzabili e dargli forma coerente. Gli si imputano grossa impersonalità ed estrema freddezza nel trattamento dei caratteri e degli spazi, ma forse è proprio questo distacco chirurgico che fa gioco al suo lavoro e gli impedisce di impelagarsi in interpretazioni troppo personali che finirebbero con lo schiacciare l’afflato dei capostipiti, rischiando di scontentare canoni e pubblico. Naturalmente è il caso di Blade Runner 2049 e di questo Dune che espande la narrazione portando rimedio al secondo tempo del cult di Lynch, espandendolo a una durata necessaria che permetta al respiro epico del romanzo di Frank Herbert di riprendersi i suoi tempi in una trasposizione sicura e solida che non mancherà di tenervi incollati allo schermo anche se con qualche ambizione ieratica di troppo.

THE HOLDOVERS, Alexader Payne

Ambientata nel 1970, la pellicola di Payne possiede la levità dei film di Hal Ashby, l’andamento di un disco di Cat Stevens e tantissimo marrone. Se siete intenzionati a proseguire l’immaginaria micro maratona nevosa che proponevamo qualche paragrafo sopra, questa potrebbe essere una scelta di cui tener conto. Il film è di quelli propriamente natalizi, infarcito di buoni sentimenti e calato in una serie di progressioni narrative tipiche del cinema americano. Si apre con una situazione alla Breakfast Club e prosegue con un crepuscolarismo alla Five Easy Pieces, ma si sostiene su una sceneggiatura brillante e turpiloquente alla Harold and Maude che aggira le banalità di situazioni già frequentate per servire un miscuglio di ciliegie giubileo flambé, dolci ma brillanti. Oscar a Da’Vine Joy Randolph e mirabile Paul Giamatti, forse il più sottovalutato interprete del cinema americano degli ultimi vent’anni.

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