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The Damned, il nemico invisibile di Roberto Minervini: intervista al regista
Cinema
di Oscar Sanchez e Chiara Zenzani
Nato a Fermo nel 1970, Roberto Minervini si è laureato in Economia e Commercio all’Università di Ancona e ha conseguito un dottorato in Storia del Cinema presso l’Università Autonoma di Madrid. Dopo aver perso il lavoro a seguito dell’attentato dell’11 settembre a New York, ha proseguito la sua formazione completando nel 2004 un master in Media Studies alla New School University di New York. Tra il 2006 e il 2007 ha insegnato Regia, Sceneggiatura e Realizzazione di documentari presso le Università De La Salle e San Beda di Manila, nelle Filippine. Oggi vive e lavora tra l’Italia e gli Stati Uniti.
Minervini si è distinto a livello internazionale grazie a opere documentaristiche di forte impatto. Stop the Pounding Heart è stato selezionato nella Selezione Ufficiale del Festival di Cannes 2013 e ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il David di Donatello come miglior documentario nel 2014. La sua opera precedente, Bassa marea – Low Tide, è stata presentata nella sezione Orizzonti alla 69ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2012, dove ha ricevuto il premio Ambassador of Hope. Nel 2015, il suo film Louisiana (The Other Side) è stato selezionato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes.
Nel 2014, Minervini è stato membro della giuria nella sezione Orizzonti della 71ma Mostra del Cinema di Venezia. Il suo ritorno al Festival di Cannes nel 2024 con il primo lungometraggio di finzione, I dannati, presentato nella sezione Un Certain Regard, gli è valso un premio ex aequo per la miglior regia. Il film è stato incluso anche nel programma della 62ma edizione della Viennale, l’evento cinematografico internazionale più importante dell’Austria, nonché uno dei festival più antichi e noti al mondo in lingua tedesca, diretto dall’italiana Eva Sangiorgi. In questa occasione abbiamo raggiunto Roberto Minervini per farci dire di più su The Damned – I Dannati e sulla sua idea di cinema, di vita e di viaggio.
Vorrei farti i complimenti per il film; mi è piaciuto moltissimo. Perché questo titolo?
«Il titolo fa innanzitutto riferimento al cinema di genere. L’avevo pensato ancora prima di realizzare il film, immaginandolo come una sorta di “contenitore” che collocasse il film nel genere di guerra. Inoltre, è anche un omaggio alla tradizione punk rock: i Damned sono una famosa band punk, e c’è un’idea irriverente, che smonta certe certezze nel cinema di genere. Infine, questo dualismo tra dannazione e condanna (Damned e Condemned) richiama un dibattito sulla sacralità o meno della guerra, sulla divinità o meno della vita e della morte».
Da dove nasce l’idea di un film sulla guerra civile americana?
«La guerra di secessione americana è un momento storico che ancora oggi risuona, per l’estrema polarizzazione dell’America contemporanea, ma soprattutto per la confusione sui valori in cui le persone credevano per giustificare la guerra. Era un periodo complesso, con un paese diviso economicamente: il Sud dipendeva dalla schiavitù per sostenere la sua economia, mentre nuovi stati entravano nell’Unione con modelli economici diversi, creando tensioni etiche e politiche. La guerra, infatti, non scoppiò come una guerra abolizionista, ma a causa dell’impossibilità di raggiungere un accordo su come unire queste diverse realtà economiche e sociali. Era un’epoca di grande confusione, in cui persino gli ufficiali provenivano dalla stessa accademia e spesso combattevano per l’una o l’altra parte per questioni geografiche o professionali. Volevo realizzare un film che riflettesse un’America frammentata e confusa, anche moralmente e ideologicamente».
È la tua prima esperienza con la fiction?
«In realtà, ho lavorato alla fiction all’inizio della mia carriera, ma questo è il mio primo film apertamente di fiction e anche il mio primo film storico».
Possiamo definirlo una finzione storica?
«Sì, possiamo, o forse una reinterpretazione, una rivisitazione. L’idea è quella di rivivere la storia attraverso le esperienze individuali, raccontando gli eventi storici dalla prospettiva dei singoli».
È corretto vedere il film come una metafora visiva, con l’idea di infinito sempre presente?
«Sì, l’infinito nel film rappresenta uno spazio senza confini, inarrivabile e a volte incomprensibile, che spinge i personaggi a trovare invece qualcosa di più sicuro e definito. Questa dualità tra infinito e ignoto si riflette nel paesaggio e nelle idee stesse del film. Anche a livello visivo, con le ottiche usate, abbiamo creato questa sensazione di impenetrabilità e limitazione della visione».
La musica ha un ruolo importante nel film?
«Assolutamente. La musica è stata composta prima del montaggio, quindi il montaggio stesso è stato realizzato in base alle sonorità già presenti, e questo ha contribuito molto all’atmosfera del film».
Quanto contano i premi per te?
«Sono importanti per il film, poiché ne aumentano la visibilità e ne riconoscono il valore. Per me, però, il cinema è un viaggio personale che non dipende dai premi».
Essendo immigrato negli Stati Uniti, come vivi la migrazione?
«Per me la migrazione è stata una condizione di insider e outsider, di appartenenza e alienazione. In America, l’immigrato è spesso percepito come “meno americano”, e questo crea una situazione di limbo, un’inquietudine permanente».
Si può dire che il nemico invisibile sia un tema ricorrente?
«Sì, è fondamentale. Il nemico invisibile è spesso una costruzione politica, una giustificazione per politiche punitive. Nel film, ho evitato di identificare un nemico per non prendere posizioni, lasciando che l’attenzione si concentrasse sulla complessità della situazione».
Quali sono le tue influenze cinematografiche?
«Mi sono avvicinato al cinema grazie al cinema sperimentale americano e sudamericano, al cinema marginale brasiliano, giapponese e ad altre correnti sovversive. Questo approccio mi affascina, perché racconta luoghi e persone in modo autentico, sfidando lo status quo e stimolando il dibattito politico».
Progetti futuri?
«Vorrei fare un film in Italia, tornare alle mie origini per raccontare luoghi e persone a cui, nonostante tutto, continuo ad appartenere».
Che consiglio daresti ai giovani che vogliono emigrare per lavorare nel cinema?
«L’emigrazione è un viaggio pieno di ostacoli, e serve tanta determinazione e passione per superare le difficoltà. Bisogna accettare l’incertezza e mantenere uno spirito idealista per affrontare l’avventura».
Ultima domanda: di che colore è la tua vita?
«Di tanti colori. È un caleidoscopio, fatto di famiglia, amici sparsi per il mondo, e una cacofonia di suoni che la rende unica».