The Irishman, l’ultimo film di Martin Scorsese – che dal 27 novembre sarà visibile anche su Netflix – è un film perverso, a un certo livello. A renderlo tale non è la durata mastodontica: 210 minuti da cui pure si taglierebbe facilmente via almeno una mezzora, specie dalla prima parte. Non è il sadismo che porta il nostro Marty a questa durata faticosa ma l’amore profondo per il cinema, di questo siamo certi.
A rendere il film perverso non è nemmeno il tema trattato, ovvero, la disamina del mondo della malavita organizzata che gira intorno al celebre sindacato dei trasportatori di Jimmy Hoffa, un Al Pacino che, diretto per la prima volta da Scorsese, è semplicemente sublime. La violenza della messa in scena è di una secchezza tale da non lasciare spazio alcuno al florilegio o al compiacimento morboso.
Se ci azzardiamo a definire perverso l’ultimo film di Scorsese è piuttosto per la tecnica di ringiovanimento computerizzato adoperata: ne è vittima Robert De Niro, che dovendo interpretare un personaggio nell’arco di circa cinquant’anni di vita, subisce un vero e proprio lifting digitale. L’effetto è straniante a dir poco: la pelle è liscia ma immota, la capacità comunicativa di uno dei più grandi attori americani sostituita da un impaccio raggelante.
Il punto è anche che ci ricordiamo bene com’era De Niro da giovane e ci rammentiamo come, al meglio proprio nei film diretti da Scorsese, riuscisse a restituirci caratterizzazioni complesse, spesso sospese tra pensosità , registro nevrotico ed eccesso grottesco. De Niro è figlio della tradizione del Metodo Strasberg, dell’Actor’s Studio, e la sua immedesimazione con i propri personaggi implica di solito una mobilitazione del corpo intero nell’interpretazione. Qui invece la fisicità è sempre quella inevitabilmente pesante di un uomo di 75 anni.
Nella prima parte, quando guida il camion, De Niro assomiglia moltissimo a George Raft in They Drive by Night (Strada maestra, 1940), un gangster movie sul mondo degli autotrasportatori diretto da Raoul Walsh. Oltre che per i suoi legami col vero mondo della mafia, Raft è noto anche come uno degli attori meno espressivi della storia del cinema. Scorsese dunque è riuscito ad alterare De Niro fino a farne un interprete freddo, piatto, come sedato. Viene addirittura da rimpiangere le interpretazioni di Cher degli ultimi anni: almeno la diva sfrutta la propria epidermide senza tempo come bandiera mitopoietica di un’identità cyborg/queer assolutamente iconoclasta.
C’è però un aspetto della metamorfosi di De Niro che è talmente eccessivo da rivelare la vera posta in gioco: anche gli occhi dell’attore sono coperti da lenti azzurre. Per quanto questo dettaglio sia giustificato dalle origini irlandesi del personaggio, l’effetto è uno sguardo talmente vitreo e muto da non poter essere che un eccesso voluto.
Insomma, sembra proprio che in The Irishman Scorsese abbia sottoposto il suo attore feticcio a un’altra straordinaria trasformazione fisica, proprio come quella che gli guadagnò l’Oscar con Toro scatenato. Questa volta però, da interprete esplosivo De Niro è stato mutato in una figura implosiva, al fine di incarnare al meglio l’ottusità di fondo del proprio personaggio. Il suo Frank Sheeran rimane talmente invischiato nelle logiche del crimine senza mai prendere realmente una posizione da distruggere il proprio mondo affettivo e forse la propria stessa umanità .
Mano a mano che il film avanza e il personaggio invecchia, il viso di De Niro riacquista una mimica e una morfologia più naturali ma non è che un’illusione: non si può davvero rintracciare un’anima in quel volto, il personaggio fiacca ancora la nostra spinta identificativa e come spettatori rimaniamo problematicamente sospesi tra l’empatia e il disprezzo.
Il film si rivela così un apologo sull’amicizia, la colpa e il peso della vecchiaia, assolutamente commovente ma anche implacabile. Perverso non in modo fine a sé stesso ma per mettere in scena la banalità di un personaggio moralmente aberrante.
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