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Una visione a 360 gradi: intervista al regista Eduardo Williams
Cinema
Si è da poco conclusa la 19ma edizione di Lago Film Fest, che dal 21 al 29 luglio ha presentato nel borgo medievale di Lago più di 100 film suddivisivi in nove concorsi, tra fiction, documentari e animazioni presentati in diversi schermi del borgo di Revine Lago. È stata la più eclettica edizione del festival, che nel 2024 giunge alla 20esima edizione. Appuntamento significativo che amplierà la programmazione per tutto il corso dell’anno, come ha annunciato Carlo Migotto, co-direttore del festival insieme a Viviana Carlet, durante la serata di chiusura del festival.
Molteplici i talk e le masterclass, tra cui quella di Lav Diaz, vincitore del Pardo d’oro e del Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia, a cui è stata dedicata la prima retrospettiva in Italia, con la presentazione di sette suoi film in una sala cinematografica creata appositamente, visto che tutte le altre proiezioni erano all’aperto.
I focus tematici erano dedicati alla tedesca Helena Wittmann, allo svizzero Cyril Schäublin, vincitore a Encounters alla Berlinale 2022 per il film Unrest, e a Eduardo Williams. l film del regista argentino sono stati proiettati in diversi film festival, tra cui quello di Locarno, Toronto e New York, alla Biennale dell’Immagine in Movimento di Ginevra, e al Museo Macro di Roma. Abbiamo parlato con lui per approfondire alcuni aspetti del suo lavoro.
Stabilisci un rapporto molto interessante tra la macchina da presa, i luoghi e i personaggi. In particolare modo, vorrei approfondire con te le modalità in cui la macchina da presa riprende gruppi di persone in continuo movimento, in lontananza. A volte li perdiamo di vista mentre sentiamo le loro conversazioni e questo crea una strana contrapposizione tra intimità, grazie ai dialoghi, e distanziamento, visto che difficilmente vediamo i volti delle persone, sempre lontane. Perché utilizzi questa forma di rappresentazione? Qual è il rapporto tra il modo di riprendere e lo sviluppo narrativo del film?
«Mi interessa l’unicità dell’esperienza cinematografia. Perché questo effetto di distanziamento, che tu hai giustamente notato, si può avere solo con il cinema. Quello che mi affascina del cinema è come riesce a cambiare la nostra percezione del reale.
Quando ero piccolo andavo al cinema con mia nonna, e quello che sempre mi sorprendeva quando finiva la proiezione era il cambiamento che aveva avuto su di me la visione di quel film. A quel tempo vedevo in Argentina solo film hollywoodiani, poi ho scoperto il cinema sud americano, e ho scelto di studiare cinema all’Università. Tornando alla tua domanda, è vero nella vita reale se non sei vicino alle persone non puoi ascoltare le loro conversazioni, ma nel cinema invece sì».
Questo artificio è una strategia narrativa che mi sembra presente fin dai tuoi primi film.
«Si, è vero. Sono sempre stato interessato a ritrarre un contesto collettivo invece di narrare la storia di un singolo individuo, e i dialoghi mi permettono di delineare meglio una collettività. In Pude ver un puma, il primo corto proiettato a Lago Film Fest la macchina da presa segue un gruppo di amici che attraversano una città abbandonata. Raccontano frammenti delle loro vite, episodi quotidiani, in In J’ai oublié! segue alcuni giovani di Hanoi che vanno a fare la spesa al supermercato, attraversano la città in motorino, passando per i tunnel e giardini, fino a giungere sul tetto di un complesso residenziale in costruzione dove si arrampicano, saltano e sfidano la gravità facendo Parkour. In quel film era il complesso residenziale ad interessarmi, e a determinare lo sviluppo della storia».
I luoghi in cui si svolgono i film sembrano avere un ruolo fondamentale per lo sviluppo della trama.
«Sì, i luoghi sono spesso il punto di partenza. Per esempio In Pude ver un puma avevo scoperto su Youtube una città abbandonata fuori Buenos Aires. Un luogo pieno di suggestioni. Dopo averla visitata ho scritto una sceneggiatura ambientata in quel luogo, che volevo rimanesse pieno di mistero pur essendo attraversato da quel gruppo di ragazzi. Non ero però soddisfatto della sceneggiatura e del modo in cui veniva recitavano gli attori, era troppo perfetto, cercavo qualcosa di più spontaneo. Li ho incoraggiati a dire e a aggiungere quello che volevano, ma per loro era difficile. Ho riscritto la sceneggiatura lasciando dei vuoti in modo tale che loro potessero aggiungere quello che ritenevano opportuno. E in quel modo ha funzionato. Si è creato una diversa narrazione di quel luogo, che è il punto di partenza da cui si sviluppa la storia».
Le location sono cosi importanti anche negli altri tuoi film?
«Sì, in Que je tombe tout le temps? il secondo corto che è stato proiettato, nasce dalla scoperta di un tunnel, nel giardino di un amico, che veniva usato in Francia durante la prima guerra mondiale. Da li ho immaginato la storia di un ragazzo che con altri amici si trovano in quel luogo nascosto. Si sento liberi di raccontarsi in quel luogo che solo loro conoscono. E questo li fa sentire unici, pur narrando problematiche proprie dell’adolescenza. I dialoghi hanno il ritmo delle chat, si sviluppano in modo progressivo, cerco la spontaneità, e insieme le contraddizioni dei modi di comunicare propri dei Social Media. Cerco di mantenere alcuni aspetti indefiniti, come il nome dei paesi e i luoghi in cui vengono girati i film».
Per concludere questa intervista vorrei chiederti di parlarci del film Parsi, un saggio filmico sul cosmopolitismo e l’incertezza.
«Parsi è stato girato con e tra i giovani della comunità queer e trans in Guinea-Bissau. L’ho girato in un modo piuttosto inconsueto. Ho voluto utilizzare una cinepresa a 360º che li accompagna in una passeggiata attraverso i quartieri della città, a piedi, sui monopattini e in automobile. Il girato è stato poi adattato per il formato cinematografico con un visore di realtà virtuale. Modalità che rende le immagini stranianti, accompagnate da un’ipnotica traccia audio, scandita dal ritmo dei versi del poema No es, scritto del poeta ed editore letterario argentino Mariano Blatt, dove si accumulano cose che “sembrano essere ma non sono”. L’ascolto dei versi di questo poema suggerisce quanto l’incertezza possa produrre forme di complicità e di resistenza, in grado di contrapporsi a modalità e prescrizioni sociali consolidate e eterodirette».