01 novembre 2012

Amsterdam, la città porosa

 
L'Olanda continua a richiamare artisti e curatori. Angela Serino ci racconta come è nata la sua scelta di trasferirsi ad Amsterdam, città che le ha dato molto, ma la cui tenuta culturale oggi è minacciata dai tagli alla cultura che si fanno sentire anche nel Paese dei tulipani

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Vivo ad Amsterdam dalla fine del 2004, il trasferimento è stata una scelta professionale e affettiva, ma quando sono partita dall’Italia non ho pensato che fosse definitivo. Volevo trascorrere qualche anno fuori, come esperienza formativa post laurea. Dopo aver studiato, vissuto e lavorato nella bellissima Toscana, a Siena al Palazzo delle Papesse e alla Galleria Continua, avevo voglia di vivere in una città dove entrare a diretto contatto con pratiche artistiche e una comunità di artisti che vi risiedessero tutto l’anno. Così nel 2005/06 ho frequentato la scuola per curatori al de Appel, ho iniziato a lavorare curando mostre ed eventi a TENT.Rotterdam, PSWAR, ECF. E l’Italia si è allontanata sempre di più.

In questi anni ho fatto diverse esperienze professionali che ritengo importanti, ne vorrei nominare almeno tre. La collaborazione con PSWAR: Public Space with a Roof, un collettivo (e prima anche spazio no-profit). La seconda è la curatela di RED AiR/Red light Amsterdam, un progetto iniziato da SMBA, Comune di Amsterdam e de Key. La terza è la collaborazione attuale con Kunsthuis SYB: una residenza nel nord dell’Olanda. Tutte mi hanno permesso di incontrare e lavorare al fianco di artisti e professionisti molto bravi. Per il progetto RED AiR/Red light Amsterdam, ho avuto la possibilità di lavorare per quasi un anno con un gruppo eccezionale di artisti, tra cui Mounira Al Solh, Francesca Grilli, Meiro Koizumi, Ahmet Ogut, Egle Budvytyte, Achim Lengerer. È stata l’occasione per seguire la produzione di nuovi lavori, oltre che per avviare collaborazioni con altre istituzioni, come il Museo Storico della città di Amsterdam.

Queste esperienze sono state possibili anche perché Amsterdam è la capitale di un Paese dove la cultura del commercio è un’arte antica. È una spugna che assorbe tutto intensamente, attraendo di continuo persone che provengono da tante parti diverse del mondo. Ma nello stesso tempo, con altrettanta energia, spinge per esportare persone e cose ‘dutch‘. Se non si rimane intrappolati in una logica del dare-avere di tipo mercantile, ma si creano invece situazioni di generosità utili a mantenere in circolo le energie e le idee, allora è una città bellissima. Dopotutto Amsterdam ha garantito finora la possibilità di un accesso diretto alla cultura internazionale (penso alla quantità sorprendente di lecture e visiting programs di artisti e teorici organizzate dal De Ateliers – i Blue Tuesdays; da SMBA e W139 con Right About Now, quelli del de Appel e a molti altri). Non sono certa che avrei avuto le stesse possibilità di curatela in Italia, ma c’è anche un aspetto negativo: molti degli artisti con cui ho lavorato non abitano più qui. Chissà cosa succederà.

Recentemente ho avuto la possibilità di riguardare l’archivio del de Appel dopo la riapertura nella nuova location: scorrendo i comunicati, le fotografie dei primi anni di attività dello spazio (1975-77), si scopre  un patrimonio incredibile: le pratiche più innovative dell’epoca (la storia della performance dalla fine degli anni Sessanta) in senso europeo e internazionale sono passate da lì. Artisti che erano ad Amsterdam di passaggio, ma anche artisti stranieri che decidevano di rimanerci a vivere: Marina Abramovic, Laurence Wiener, Charlemagne Palestine, per nominarne solo alcuni. Ma l’atmosfera era decisamente diversa, e non solo per le droghe leggere: la città era piena di case vuote, giovani e adulti se le riprendevano occupandole, gli artisti erano curiosi, sperimentavano, si auto-organizzavano. Forse non erano “autodidatti per principio” ma l’impressione che ho avuto era di uno spirito libero. Oggi Amsterdam vuol dire anche, o soprattutto, i diversi programmi postgraduates per artisti e curatori (il Curatorial Program del de Appel ne è un esempio; ma anche il De Ateliers, la Rijksakademie, la Jan van Eyck e così via). Sono più forti, insomma, i parametri contemporanei di un sapere spesso ufficializzato. Per il futuro c’è il timore che il supporto economico pubblico possa essere destinato a un numero molto più ristretto di artisti. Allora la vera questione è: quali criteri verranno utilizzati per definire i pochi fortunati ‘top talents’? – definizione alquanto fastidiosa ma che pure circola – ci sarà spazio per la sperimentazione? Sicuramente si continuerà a fare arte, ma forse – e questa potrebbe essere una radicale trasformazione per l’Olanda – non sarà più finanziata dallo Stato. Forse potrebbe essere anche una chance per creare altro, senza seguire guidelines e funding applications, chissà. Nell’immediato può sembrare pericoloso, molti artisti si trasferiscono. Ma è anche vero che molti lo facevano anche prima dell’annuncio di questi tagli: in un certo senso ributtati a mare dalla stessa città lungo i sentieri dell’international mobility.

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